Piccole note sul liberalsocialismo di Guido Calogero
29.03.2022
Durante la loro storia, i partiti socialisti europei hanno subito numerose e profonde trasformazioni rispetto all’impostazione iniziale, tanto che già nel periodo in cui Marx scriveva il suo Manifesto del partito comunista, in Germania c’era chi parlava di liberaler sozialismus. Il revisionismo è un aspetto che ha interessato praticamente fin da subito l’impalcatura ideologica del movimento operaio, ma ha investito anche il liberalismo liberista, portandolo ad uscire dalla fede cieca di un mercato che si governa da sé e ad ammettere un possibile intervento dello Stato in economia per garantire una certa redistribuzione del reddito e delle reali possibilità di crescita individuali quanto sociali. Fu già Stuart Mill – secondo Nicola Tranfaglia – il primo dei teorici liberali ad intraprendere questo percorso di critica, sottolineando la validità di alcune istanze avanzate dal socialismo premarxista europeo.
Nascono da qui le varie denominazioni sincretistiche come liberalsocialismo o socialismo liberale, soprattutto perché il socialismo si fa crocevia di culture politiche (senza dimenticare quella cattolica), che, parafrasando Carlo Rosselli, salva i pregi ormai assicurati di ogni cultura, rafforzandoli progressivamente con i pregi dell’altra.
Ma se di Carlo Rosselli e del suo testo Socialismo Liberale si è sentito (anche in virtù di tragici avvenimenti) parlare, meno si sa del liberalsocialismo, che in Italia ha avuto tra i suoi precursori personaggi di non poco conto come Tristano Codignola, Aldo Capitini e Guido Calogero. Proprio quest’ultimo diede alle stampe, nel 1940, il Primo manifesto del liberalsocialismo, al tempo diffuso come Nota sul concetto dello Stato. Rileggerlo non appare affatto inutile ancora oggi, in tempi in cui si cerca di ristrutturare la società in maniera più giusta ed equa. È inutile, ovviamente, l’avvertenza che ogni opera è figlia del suo tempo, ma appare curioso come il liberalsocialismo rimanga tutt’oggi al massimo sullo sfondo di un discorso politico che cerca nuovi punti di riferimento, ma mai indagato realmente nei suoi fondamenti teorici. Non si ha la pretesa ovviamente di farlo in questa sede, ma forse val la pena di riprenderne alcuni passi, che potrebbero almeno essere forieri di spunti di riflessione non banali di merito ma anche di metodo.
Scrive infatti Calogero che «il socialismo vuole che fra tutti gli uomini sia equamente distribuito […] l’altro grande bene che è la possibilità di fruire della ricchezza del mondo, in tutte le legittime forme di tale fruizione […]. Il liberalismo (invece ndr) vuole la stabilità dei diritti e delle leggi senza distinzioni dipendenti da religione, razza, casta, censo, partito». Al socialismo il compito, secondo l’ideale cristiano e mazziniano, di far progredire la giustizia e l’eguaglianza. Al liberalismo quello di rendere possibile la partecipazione democratica e libera dei cittadini al governo.
Senza infingimenti di sorta, Calogero ricorda che «a chi combatte con la miseria, non si può offrire e garantire senza ipocrisia la semplice libertà di opinare e di votare (come ndr) a chi soggiace alla dittatura non si può concedere senza perfidia un innalzamento del livello economico della vita, a cui non vada congiunta la libertà dell’intervento critico e pratico nella amministrazione della ricchezza comune». In sostanza è impossibile far avanzare la libertà senza l’ausilio della ricchezza, ne amministrare secondo giustizia senza l’ausilio della libertà.
Nel testo, l’autore si scaglia contro il «liberalismo antiquato e conservatore», per il quali la libertà è «concetto supremo, la giustizia concetto inferiore». Secondo Calogero, il socialismo che invece non si accorda con la più sana delle tradizioni liberali è il quello marxista e autoritario «che vede nella dittatura del proletariato la condizione della futura libertà. È il socialismo di chi ancora crede che l’ideale della giustizia sociale debba essere dedotto dalla scienza dell’economia, ed essere preveduto inevitabilmente vittorioso». Forte è la critica al collettivismo totale, che fa il paio all’ipotesi limite della libera concorrenza che idealmente offrirebbe sempre e realmente a tutti le stesse possibilità di intervento.
Se si ammette anche la possibilità di un intervento pubblico in economia, viene proposto con un sano pragmatismo, perchè prevede la «sempre mutevole adeguazione degli strumenti tecnici e giuridici» per favorire sia l’iniziativa privata, che «correggere il meglio possibile le forme di meno equa distribuzione della ricchezza prodotta». Il tutto sempre tenendo conto della «effettiva situazione storica in cui si tratti di recarli in atto». Non una banalità visti i fideismi di vario genere degli ultimi decenni. E fa il paio con quanto scrisse Gino Giugni un cinquantennio dopo: «il riformismo non può consistere di proposte di leggi pensate a tavolino. (Ma, ndr) richiede la capacità di inserire la proposta nel contesto politico». Attuale, con ogni evidenza.
Di Raffaele Tedesco
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