PART TIME: NON È TUTTO ORO QUELLO CHE LUCCICA

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10.10.2024

Premessa: il part time a mio avviso – a meno di lavorare per hobby – punisce sia quando c’è che quando manca. Ho chiesto ad una giovane amica, madre di due bimbe piccole, cosa ne pensasse e mi ha risposto “il Part time è una bella cosa”. Mi ha fatto riflettere. Perché avere più tempo personale si paga, e si sa: si guadagna meno, si versano meno contributi e si rischia di avere pensioni più povere. Significa avere un lavoro i cui orari possono essere comunicati con breve preavviso. Significa sentirsi precar* anche quando si è firmato un contratto di lavoro.

Delle 4 milioni e 203 mila persone che lavorano a tempo parziale, il 56,2% ha accettato l’orario ridotto per assenza di alternative: sono il 10,2% sul totale di chi lavora (Istat, 2023 rapporto BES). È quel part time “involontario”, imposto a chi vorrebbe lavorare full time ma accetta l’unica possibilità di lavoro trovata.

Perché le donne “scelgono” il part time

Poi c’è quel part time che viene chiesto e “concesso”, una “non scelta” che è ancora prevalentemente una “questione femminile”. Una alternativa a cui si ricorre per far fronte ai carichi di cura familiare per i quali non ci sono servizi adeguati, economici, affidabili, comodi da raggiungere. Le ricorrenti motivazioni del part time evidenziano quanto ancora le donne suppliscano alle carenze di un sistema che le considera il vero “welfare” del Paese.

Il part time danneggia carriera, retribuzione e pensione: però significa anche poter restare nel mondo del lavoro. Le donne premono per ottenerlo – perché avere un lavoro anche part time è sempre meglio che essere costretta a licenziarsi e diventare economicamente dipendente dal compagno o da altri familiari. Già le donne fanno fatica a trovarlo, un lavoro regolare, perfino quando sono giovani e ben istruite: uscire dal mercato del lavoro significa perdita di autonomia e rischio di povertà – e in convivenze forzate avvengono purtroppo anche tanti femminicidi.

In Italia il part time femminile è il triplo di quello degli uomini

Nel nostro Paese il part time femminile resta il triplo degli uomini: i dati reperibili in rete narrano che in Italia circa il 24% delle donne occupate hanno un impiego part-time, contro una media dell’8% di uomini occupati tra nord est e mezzogiorno (Openpolis, dati al 2023 su basi Istat).

Ci sono 5 punti percentuali in più tra le donne in part time con figl* (22% tra le donne 15-64 anni), e quelle senza figl* (il 17% – dati PwC su base Istat). La stessa percentuale del 5% è invertita tra gli uomini in part time: quelli con figli sono il 5% in meno rispetto a chi è senza figli. Non stupiamoci: in una famiglia il part time per oneri di cura ricade su chi guadagna di meno – ovvero le donne.

Non solo numeri, ma anche motivazioni. Da tempo report e ricerche evidenziano che il tempo parziale non viene bramato dagli uomini per prendersi cura della propria famiglia ma è scelto per altre ragioni – un secondo lavoro, magari non regolare ma ben remunerato, o altri interessi.

L’ancora ridotto apporto degli uomini al menage familiare rende urgente pensare ad una diversa modalità di organizzazione nell’ambito della vita familiare. Ma va sostenuta anche una diversa organizzazione del lavoro: se si adottassero modalità e orari flessibili in base alle varie fasi ed esigenze di lavoro e di vita, si potrebbero agevolare le prestazioni soprattutto di donne e madri. Ma part time, smart working, orari personalizzati anche su base plurimestrale ed altro sono avversati da parti datoriali ancora rigide – a meno che non siano esse stesse ad imporli: finchè ci saranno queste realtà, si continuerà a favorire l’uscita delle donne dal mondo del lavoro.

Sonia Ostrica – Coordinatrice Nazionale Pari Opportunità UIL

 

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