MYANMAR: una terra senza pace

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01.02.2023

Oltre le bombe in Ucraina, le violenze di Teheran e la repressione talebana, nel Sudest asiatico c’è un’altra terra senza pace: il Myanmar. A due anni dal golpe militare nello stato birmano è ancora in corso una sanguinosa guerra civile che non sembra prossima alla fine e ha radici lontane. Infatti, Rangoon non ha una storia democratica. Indipendente dal 1948, ha visto spesso alternarsi giunte militari a tentativi di governo civile. Lo stesso è successo il primo febbraio del 2021 quando il Tatmadaw, l’esercito birmano, non ha riconosciuto l’esisto delle elezioni democratiche e ha messo in manette la leader Aung San Suu Kyi e i vertici della Lega Nazionale Democratica, il partito al governo, dando atto al colpo di Stato. Finiva così l’apparente transizione democratica avviata 10 anni prima dall’ex generale Thein Sein. Primo presidente eletto del Paese, fece alcune riforme liberali che avrebbero dovuto trasformare il Myanmar in uno stato democratico. Ma hanno avuto vita breve e oggi le divise sono tornate al potere.

La Resistenza Birmana

Nei primi mesi dopo il golpe, il popolo ha reagito con alcune manifestazioni pacifiche, poi lo scontro è degenerato. Strade e piazze si sono riempite di giovanissimi dissidenti pronti alle torture e alla morte in nome della democrazia. Uno slancio di protesta che ha superato anche i confini etnici. Il comune obiettivo di spodestare il Tatmadaw ha spinto le diverse etnie a coalizzarsi, mettendo da parte le loro storiche inimicizie. Perciò, nonostante le minoranze non abbiano mai visto di buon grado il governo centrale, ora ne sono alleate. Si sono unite al Governo di Unità Nazionale (NUG), formato da esponenti della Lega Democratica, fondando il People Defence Force.

Questo è un vero e proprio esercito di resistenza con gruppi indipendenti, senza un’autorità centrale e che conta tra i 60 e gli 80 mila uomini. Dati gli oltre 300 mila soldati delle forze armate birmane, quella PDF può sembrare una battaglia persa, ma così non è. Il Tatmadaw ha mostrato molti punti deboli. Non avendo previsto la strenua opposizione dei civili, si è fatto trovare impreparato. La carenza di risorse e le continue defezioni, hanno costretto i golpisti ad arruolare perfino donne e anziani, dimostrando di non avere la vittoria in pugno.

I numeri della strage

Perciò il conflitto continua e miete migliaia di vittime. Più il Tatmadaw fatica a ottenere il controllo del paese, più la repressione è dura e spietata. Lo provano i numeri forniti dall’Assistenza dei Prigionieri Politici in questi due anni di guerra. Sono stati registrati ben 2894 civili uccisi e 17492 arrestati poi torturati, stuprati o assassinati nel corso degli interrogatori. Parallelamente, un rapporto dell’Acled (Armed Conflict Location & Event Data Project) ha calcolato che nei primi sei mesi del 2022 gli attacchi armati hanno provocato 11mila morti e le azioni violente della giunta militare sono state almeno 668. Sempre stando al rapporto dell’Acled, il regime uccide e tortura gli attivisti civili e i loro familiari, non risparmiando neanche i bambini. Come se non bastasse, “in molti casi, i militari profanano i corpi delle persone uccise, tagliando parti del corpo e dando fuoco ai cadaveri”.

Sindacati: nemico numero uno del regime

La repressione ha colpito soprattutto il mondo sindacale birmano, rappresentato dalla Confederazione dei sindacati del Myanmar (CTUM). Subito dopo il golpe, il Ministero del Lavoro ha dichiarato illegali diverse organizzazioni e sindacati non registrati. Poi, in seconda battuta, militari e polizia hanno fatto irruzione nelle sedi sindacali, arrestando i dirigenti e minacciando le loro famiglie. Una massiccia rappresaglia che ha paralizzato la società civile, ormai consapevole che qualsiasi azione può far scattare l’accusa di “diffusione di false notizie” e un mandato di cattura. Ma questo clima di terrore non è nuovo per i sindacati birmani.

Prima della loro legalizzazione nel 2011, altri governi militari ne avevano stroncato l’operato. E anche durante gli anni di Thein Sein, erano sempre ex uomini in divisa a dirigere il Ministero del Lavoro, prendendoli spesso di mira e criminalizzandone le attività. Non sorprende allora che, dopo il golpe del 2021, i sindacati abbiano subito preso posizione contro la giunta militare, pagando un caro prezzo. Tutti i progressi nel campo dei diritti dei lavoratori compiuti nel decennio precedente sono stati immediatamente cancellati, lasciando poche speranze sulle tutele dei lavoratori birmani.

Nel report “Riding out the storm”, redatto dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) sulla resilienza dei sindacati e della società civile birmana, sono riportate numerose testimonianze dei leader in prima linea contro il regime. Questi segnalano che “l’ambiente di lavoro sta scivolando lentamente in uno stato in cui i lavoratori ritengono sia meglio accettare qualsiasi abuso pur di lavorare”. O ancora che dopo il colpo di stato “non c’è più una vera sindacalizzazione dei lavoratori in Myanmar perché non è più possibile registrare legalmente un sindacato”. Un leader di Yangon racconta di alcuni colleghi che hanno perso il lavoro per il solo fatto di essere sindacalisti e di uno sforzo mirato delle autorità per indebolire i sindacati: “dal golpe per i lavoratori è diventato impossibile far valere i propri diritti”.

Nel 2022, alla Conferenza Internazionale del lavoro dell’OIL, il Comitato applicazione standard (CAS) ha adottato conclusioni forti sul Myanmar, insistendo affinché la giunta militare permetta a una Commissione d’inchiesta OIL di entrare nel paese per svolgere indagini sul rispetto delle libertà civili, di associazione e relative alla contrattazione collettiva.

Birmania nel caos

Se si allarga lo sguardo alle condizioni di vita del popolo è palese che il Myanmar è nel mezzo di una gravissima crisi sociale ed economica. Milioni di persone sono disoccupate, l’economia ha perso il 30% della propria crescita e l’inflazione non accenna a diminuire. Nel mentre, insegnanti e medici sono i protagonisti di un movimento di disobbedienza civile che ha svuotato scuole e ospedali, rifiutandosi di lavorare sotto il governo militare. Il report annuale redatto dalla Confederazione internazionale dei sindacati (CSI) Global Right Index ha indicato il Myanmar tra i dieci peggiori paesi per i lavoratori, sottolineando l’impossibilità di formare un sindacato indipendente, svolgere attività sindacale in libertà e nessun diritto di sciopero.

In questo caos politico e sociale, riemerge lo spettro della povertà. L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA) ha registrato oltre 25.000.000 persone in povertà assoluta e 17 milioni con bisogni umanitari urgenti. Sono oltre un milione e mezzo, invece, gli sfollati interni e un altro milione quelli fuggiti nei paesi limitrofi. I dati sono ancora più agghiaccianti se si guarda ai più piccoli. Save The Children, infatti, ha denunciato che centinaia di migliaia di bambini si sono ritrovati senza una casa, in mezzo alla giungla, in balia di enormi rischi per la propria salute.

Tra l’indifferenza e lo sfruttamento.

Sarebbe da chiedersi perché la tragedia birmana faccia tanta fatica a ottenere l’attenzione dei mass media. Intanto, l’unico presidio costante è quello delle grandi multinazionali che continuano a produrre in Myanmar, a discapito di tutto, anche dei diritti umani. L’ultimo rapporto dell’Ethical Trading Initiative (ETI), infatti, ha rivelato le condizioni di schiavitù imposte ai dipendenti di marchi famosi che sono costretti a turni di 15 ore, a 2 euro al giorno e con straordinari non retribuiti. In aggiunta, un report di recente pubblicazione dello Special advisory council for Myanmar (Sac-M) analizza la rete e le filiere internazionali che permettono al Tatmadaw di continuare a produrre armi, nonostante le ripetute e forti richieste di boicottaggio a tutti i livelli fatte dai sindacati internazionali (CES e CSI). Perciò i sindacati birmani, nonostante la forzata clandestinità e le difficoltà a reperire fondi, non rinunciano a far sentire la propria voce. La loro non è solo una battaglia istituzionale, ma sociale e di giustizia. Con la solidarietà ed il sostegno del movimento sindacale internazionale, oltre a chiedere il ripristino della democrazia, i sindacati chiedono diritti per una Birmania libera e giusta, e di liberare le migliaia di prigionieri politici detenuti nelle prigioni del paese.

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