Lockdown. Quando l’Italia era una enorme “zona rossa”

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09.03.2023

Era un martedì, quel 9 di marzo del 2020, quando l’Italia intera diventava un’enorme e indistinta “zona rossa”. Poco meno di quattro mesi dopo rispetto al 17 novembre 2019, giorno in cui viene registrato il primo caso di contagio da SARS-CoV-2. Si trattava di un cinquantacinquenne della provincia dello Hubei, affetto da un virus che non fu subito riconosciuto come nuovo. La notizia, per giunta, fu resa pubblica dal governo di Pechino soltanto il 13 gennaio 2020.

I primi due casi italiani del virus accertati sono del 30 gennaio 2020, quando due turisti provenienti dalla Cina risultarono positivi al Covid-19 mentre si trovavano a Roma.

La situazione mondiale comincia a precipitare. Il virus galoppa veloce. Troppo. E comincia a mietere vittime; a richiedere misure straordinarie, per arginare il contagio di un male tanto invisibile, quanto mortale, soprattutto per i più fragili.

Il 9 marzo, l’allora presidente del consiglio Giuseppe Conte va in televisione, ad annunciare che l’Italia si fermava. “Non ci sarà più una zona rossa, non ci saranno più zona uno e zona due, ma un’Italia zona protetta. Saranno da evitare gli spostamenti salvo tre ragioni: comprovate questioni di lavoro, casi di necessità e motivi di salute”, affermò.

Intanto, assistevamo a quanto stava succedendo a Bergamo, che da metà febbraio era diventata la Wuhan d’Italia. Solo in ospedale si registravano circa 25 decessi al giorno. Poi le bare caricate sui mezzi dell’esercito. Da lì in poi il bollettino di contagi e decessi diventò un triste appuntamento quotidiano, con numeri che aumentavano in maniera esponenziale da un giorno all’altro.

Intanto le strade, le piazze, gli uffici, le fabbriche, le scuole e tutto ciò che rappresenta il nostro vivere insieme diventano un luogo dove rimbomba il silenzio. Si sta in casa, in famiglia o da soli, cercando di combattere la paura e l’insicurezza tra le mura domestiche, che però non sempre sono stati porti sicuri.

Si prova a riorganizzare il lavoro e la scuola sui binari di una modernità che per esigenze eccezionali abbiamo tentato di afferrare con più velocità. I bambini si sorridevano tra loro dai monitor dei pc, sempre se un computer era presente in casa e lo si sapesse utilizzare. I ragazzi vivevano nella bolla di un mondo schermato, con un esterno mediato unicamente dalla tecnologia. Le RSA diventavano luoghi off-limits: i simboli della solitudine.

I nostri ospedali, quel Servizio Sanitario Nazionale che dovrebbe essere studiato nelle scuole come una delle più grandi conquiste della storia nazionale, diventavano la nostra trincea, dove l’impegno di tanti spesso senza le giuste protezioni, ha tentato di sopperire a quelle croniche mancanze di cui ti accorgi (purtroppo) solo quando “tocca a te”.

Dalle televisioni vedevamo tutto, in un just in time incalzante. Attendendo che qualcuno un giorno ci dicesse che la scienza ci aveva dato l’unica arma per sconfiggere il virus: il vaccino. E gli scienziati il vaccino lo hanno realizzato in un tempo record, perché il progresso scientifico e tecnologico è un grande alleato dell’umanità.

Nel mentre, le parti sociali discutevano su come poter far subito ripartire il nostro Paese, firmando nuovi protocolli per la sicurezza, al fine di poter far riprendere – quanto più possibile – l’attività economica, salvaguardando la salute dei lavoratori.

Sui balconi apparivano lenzuola colorate di arcobaleno: “andrà tutto bene”, c’era scritto. Un messaggio che ognuno di noi leggeva dal diaframma della sua vita in quel momento. Ma comunque, un monito di speranza, per un Paese che nella sua totalità, più o meno consapevolmente, sapeva che da quel lockdown tante cose sarebbero cambiate irrimediabilmente. Un cambiamento ancora in atto, tra nuove consapevolezze e sfide ormai improrogabili per il futuro.

In quei mesi di silenzio, reso triste dal suono delle sirene delle ambulanze o allietato da piccoli concerti improvvisati dai balconi di rimpetto, abbiamo scoperto un’Italia disciplinata. Siamo stati un popolo che ha rispettato le regole del confinamento, nonostante venissimo considerati sempre refrattari al rispetto delle regole pubbliche. E come ci siamo messi in fila ordinatamente per ore ed ore davanti ai negozi di alimentari, allo stesso modo abbiamo risposto in massa all’appello a vaccinarsi, che le nostre istituzioni ci hanno lanciato.

Vuol dire che in quei momenti di chiusura – spesso di solitudine e tristezza – che per tutti noi rimarranno drammaticamente indimenticabili, non abbiamo smesso di nutrire il miglior sentimento per continuare a vivere: la speranza in un futuro migliore.

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