La storia di Lucia che come tanti non riesce più a trovare lavoro

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24.03.2022

Quella che ci apprestiamo a raccontarvi è la storia di Lucia (nome di fantasia). Una storia come tante, che racconta la difficoltà di una donna che, uscita dal mercato del lavoro dopo aver avuto due figli, desidera lavorare ma non ci riesce.

Lucia, dicevamo, ha 44 anni. È una mamma di due adolescenti di 12 e 16 anni. Aveva 28 anni quando, rimasta incinta, ha smesso di lavorare. Anche se, in realtà, un lavoro fisso non lo ha mai avuto.

I primi passi nel mondo del lavoro li ha mossi prestissimo. A 16 anni “andava a bottega” lavorando come aiuto estetista e parrucchiera in un salone di bellezza. Avrebbe dovuto essere solo un lavoretto estivo, ma è finito con il diventare la sua professione principale, per 12 lunghissimi anni. Mai regolarizzata, sempre in nero.

Con la scuola, non ha mai avuto un buon legame. I suoi genitori, braccianti agricoli entrambi, non hanno potuto seguirla più di tanto, schiacciati dalla fatica fisica del lavoro nei campi e da quella mentale di riuscire a far quadrare i conti della famiglia ogni mese. Finita la terza media, riesce a prendere una qualifica professionale. Poi più nulla.

Intanto, però, Lucia nel suo lavoro malpagato e non in regola era diventata brava. La proprietaria dell’attività presso cui lavorava le aveva più volte promesso un cambio di passo, una vita migliore: regolarizzazione, stipendio fisso, tutele. Insomma, un contratto.
E Lucia, in quelle promesse, ci aveva creduto. Ci contava. Mentre lavava, tingeva, tagliava capelli si era fidanzata, poi sposata.
Il contratto, però, tardava ad arrivare. Stava quasi per farglielo questo contratto (ne siamo tutti convinti!) quando Lucia rimane incinta del suo primo figlio. Fine della storia. Il rapporto di “lavoro” si chiude. Lucia prova a fare qualcosina privatamente per arrotondare ma non ci riesce. Abbandona il campo, si convince e si lascia convincere che fare la mamma in fin dei conti è quello che ha sempre voluto.

Passano 13 anni, Lucia va avanti con la sua vita crescendo i suoi figli. Una vita semplice, a suo modo felice, serena. Ma con un vuoto grande. Lo ha confessato a pochi nella sua vita, ma lavorare le piaceva. E così decide di riprovare a entrare nel giro.
Le difficoltà sono tante. Enormi per chi come lei ha passato gli ultimi 16 anni in una sorta di bolla, estranea alla vita professionale e al mondo del lavoro e in un contesto familiare e amicale che questa sua voglia forte, questa sua necessità potente e intestina di lavorare, proprio non la comprende.
Non ha un titolo di studio, non ha attestati, né formazione specialistica. Non è abbastanza aggiornata sui nuovi tagli, sulla moda e le tendenze. Di social o web ne capisce fino a un certo punto, ma quanto basta per orientarsi un pochino tra i tutorial on line. Capisce che non può tornare a lavorare come vorrebbe senza formazione e allora cerca un modo per tornare sui banchi di scuola, per aggiornarsi e magari, chissà, aprire una sua attività.

Una scelta che nessuno ha approvato. Le amiche, il marito, la famiglia non capiscono. “Che bisogno hai di lavorare?” le chiedono. Con insistenza. Dalla sua, solo sua figlia, la più grande, tredicenne. Con il suo aiuto, Lucia riesce a superare un test per essere ammessa a una scuola per estetiste. Sempre con il suo aiuto, riesce a vincere una piccola borsa di studio: un contributo utile a sostenere i costi della formazione.
Lucia si diploma, ma, nonostante questo, un lavoro non riesce a trovarlo. Qualcosina sì, ma si tratta sempre di lavoro irregolare, instabile. Le ragazze più giovani sembrano avere sempre la precedenza rispetto a lei che ormai giovane non è più. Resta la strada dell’autoimprenditorialità, una strada che però lei, Lucia, da sola, non sa percorrere. E si ferma lì, ancorata a un sogno.

Da dove iniziare? Come orientarsi? Senza soldi da investire, con mille progetti nella testa ed enormi scogli che non sa superare. Si arrende.
Lucia fa parte di quella percentuale di donne che non lavorano. Fa parte del gruppo degli “scoraggiati”. Di quelli che il lavoro non ce l’hanno e non lo cercano più. Perché ci si è arresi e non si riesce ad andare avanti. Fa parte di quel numero che compone il dato statistico degli inattivi. Una parola che disturba e che, spesso, non combacia non la realtà. Inattivo, infatti, non è solo “chi infondo sta bene così”. Più spesso è chi, come Lucia, ha semplicemente perso la speranza. Sentendosi fuori tempo, fuori posto e, soprattutto, soli, senza aiuti né supporti.

In realtà, strade da percorrere ce ne sarebbero: finanziamenti regionali o europei, ad esempio. Bandi a cui partecipare per poter ottenere dei contributi per lanciare start-up. Sono in tanti, però, a non saperlo. O a non saper accedere a questi aiuti.

Una società che vuole sentirsi realmente moderna, all’avanguardia e “in crescita” dovrebbe saper orientare tutti. Anche chi, come la nostra Lucia, è più fragile, isolata, demotivata. Superare le diseguaglianze, infondo, vuol dire anche questo.
Aiutare chi come lei è nella categoria “inattivi”. E non vorrebbe esserlo.

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