La società italiana al 2022: Il rapporto Censis
02.12.2022
Il rapporto si apre con un focus importante sulle crisi che ormai dalla pandemia si accavallano senza pietà: oltre al Covid assumono ruoli importanti nella società italiana anche la guerra in Ucraina, la crescita dell’inflazione e il caro energia, che pesa su 350 mila imprese e 3 milioni di lavoratori. Per questi motivi dal popolo si levano grida di equità troppo spesso – e frettolosamente – bollate come populismo.
Ma vediamo qualche dato per circoscrivere meglio il malessere degli italiani: la quasi totalità di noi (il 92,7%) è convinta che l’accelerata dell’inflazione durerà a lungo e che bisogna pensare subito a come difendersi. Tra le persone con redditi bassi il 79,3% teme che nei prossimi mesi il proprio tenore di vita si abbasserà. D’altronde la perdita di potere d’acquisto è già realtà: i salari da lavoro dipendente a tempo pieno sono aumentati solo dello 0,7% di fronte a un aumento dell’indice dei prezzi al consumo del 6,7% (addirittura 9,8% per le famiglie meno abbienti) nel primo semestre del 2022 rispetto allo stesso periodo nell’anno precedente. I rinnovi dei contratti collettivi, attesi da più di sei milioni di lavoratori, possono essere una prima, sicuramente non definitiva, soluzione al problema. Anche i pensionati sono gravemente esposti all’erosione del potere d’acquisto, così come al fenomeno delle diseguaglianze territoriali: al Sud le pensioni sono mediamente inferiori del 20 (-28% per le donne) rispetto a quelle del Nord.
C’è da fare i conti con ciò che comportano nell’immediato queste crisi, ovvero l’inasprirsi di diseguaglianze già ampie e radicate: ad esempio assumono una valenza socio-politica significativa la ripulsa verso i privilegi di alcuni ritenuti oggi odiosi, come l’eccessivo gap esistente tra le retribuzioni dei dipendenti e quelle dei manager (l’87,8%), i bonus milionari di buonuscita per i manager (86,6%) o le tasse troppo ridotte pagate dai giganti del web (84,1%), ma anche ostentazioni varie, boom dei super-patrimoni, crescita dei guadagni degli influencer.
È ovvio che ci troviamo di fronte a uno scollamento sociale importante: se da una parte c’è chi, come detto, mostra scontento e chiede equità, dall’altra (non mi riferisco solo alle classi più abbienti ma alle istituzioni) non sempre si riesce a comprendere quelle istanze. Infatti, “anche se non si registrano intense mobilitazioni collettive attraverso scioperi, manifestazioni di piazza e cortei, emerge comunque una ritrazione silenziosa dalla partecipazione ad ambiti costitutivi del vivere civile”, come al momento delle elezioni, in cui quasi il 40% degli italiani non ha votato o ha votato scheda bianca/nulla.
“Le insopportabilità sociali elencate sopra non possono essere frettolosamente liquidate con l’epiteto “populiste”. In realtà, le insopportazioni verso eccessi odiosi, disparità intollerabili e vistose ostentazioni di persistenti opulenze sono tra i segnali più significativi del fatto che nella società si è già avviato un ciclo post-populista basato su autentiche, legittime rivendicazioni di equità.”
L’ingresso in una nuova età dei rischi
Non solo malcontento, anche sfiducia e insicurezza verso il futuro. I motivi sono noti e descritti in apertura, motivi che hanno aumentato però anche la consapevolezza del singolo individuo di fronte ad eventi fino a poco tempo fa ritenuti lontani e ininfluenti per la nostra condizione. Infatti, dopo il rapido propagarsi della pandemia e le conseguenze semi-immediate della guerra, l’84,5% degli italiani (laureati 89,2% e giovani 87,8%) si è
ormai convinto che vada presa seriamente in considerazione la possibilità che anche eventi geograficamente lontani possano cambiare improvvisamente e radicalmente la propria quotidianità. Questo ci porta al dato forse più importante: oltre due italiani su tre (dieci punti percentuali in più rispetto al pre-Covid) sono pervasi dall’insicurezza pensando al proprio futuro e alla propria famiglia (66,5%).
Questa situazione di generale malcontento e sfiducia influisce notevolmente nei meccanismi che hanno sempre regolato la società dei consumi, quegli stessi meccanismi che spingevano le persone a fare sacrifici per adattarsi, elevarsi, modernizzarsi, arricchirsi. Ecco, in questo momento storico hanno “perso presa”: l’83,2% degli italiani non è più disposto a fare sacrifici per mettere in pratica le indicazioni di influencer, celebrities o altre figure di riferimento, l’81,5% per vestirsi secondo i canoni della moda e il
70,5% per acquistare prodotti di consumo di prestigio, come auto o moto di marca, abiti firmati ecc.
Ma non solo, perchè la grande disillusione, diventata ormai sfiducia, “rispetto ai meccanismi di mobilità sociale ascensionale è ormai tracimata nell’esplicita rinuncia all’autopromozione individuale e nell’antitetica voglia di vivere per quel che si è”. Non a caso il 54,1% degli italiani avverte la forte tentazione di restare passivo, senza prendere iniziative, blindandosi nel privato,di fronte al susseguirsi di queste crisi.
Territori senza coesione sociale
Il nostro è un Paese che invecchia velocemente e questo ha implicazioni importanti nel mercato del lavoro, nel welfare, nella politica pensionistica. L’indice di dipendenza strutturale, che misura il rapporto tra la popolazione inattiva e la popolazione attiva, è pari al 57,5% (+12,8% rispetto al 1992) e quello di vecchiaia è pari al 187,9% (+87,5% rispetto al 1992).
A questo dobbiamo aggiungere il vergognoso divario territoriale che impedisce un pieno sviluppo delle regioni del Mezzogiorno e che, al contrario, le ancora alla povertà (gli individui impossibilitati ad acquistare un paniere di bene e servizi giudicati essenziali per uno standard di vita accettabile sono per il 44,1% residenti nel Mezzogiorno), alla dispersione scolastica (16,6% di fronte alla media nazionale del 12,7%) e all’inattività, con percentuali di NEET più alte che nel resto d’Italia, il 32,2% contro una media nazionale del 23,1%, già più alta di quella europea al 13,1%.
Insomma, la coesione sociale nei territori è compromessa. La situazione non migliora guardando al nostro futuro, gli studenti: la popolazione scolastica si assottiglia sempre più, “subendo i contraccolpi del costante declino demografico che caratterizza da decenni il nostro Paese, catturato in un vortice di bassa natalità e invecchiamento della popolazione, processi non compensati né da efficaci politiche di sostegno alla famiglia, né dalle dinamiche migratorie”. Anche chi ha finito gli studi però si trova in difficoltà: il rapporto presenta una situazione in cui, nonostante i (pochi) giovani siano sempre più qualificati, essi registrano un tasso di occupazione molto inferiore rispetto gli altri paesi europei e soprattutto con redditi più bassi, chiari sintomi dei percorsi di precariato che si trovano ad affrontare.
Se a questo aggiungiamo una sanità con un’assenza ormai cronica di medici e infermieri, segno di anni di tagli – fermati solo nella pandemia e ripresi nell’ultima manovra – e politiche di inserimento e formazione sbagliate, e il senso di insicurezza legato alla situazione economica, previdenziale e inerente ai reati, ci accorgiamo di come il nostro Paese e la sua popolazione siano in forte difficoltà, impantanati in una serie di crisi che aggravano una situazione già compromessa, probabilmente per le stesse politiche sbagliate negli ultimi decenni che purtroppo si riproporranno nel futuro. Questa manovra, nonostante i tempi siano tra i più difficili, non aiuta chi ha più bisogno per combattere l’inflazione e il caro energia, non aiuta il lavoro, dilaniato da anni ormai, non aiuta la crescita di un Paese che non può permettersi l’ennesima recessione in questo momento storico.
Riccardo Imperiosi
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