La crisi esistenziale del lavoro “post pandemia”

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09.03.2022

È stato pubblicato oggi il 5° rapporto Censis- Eudaimon sul welfare aziendale e sui fenomeni di trasformazione del mondo lavoro.

Una raccolta di dati che dà un orientamento sulle evoluzioni del rapporto tra le persone e la propria occupazione. I risultati sono interessanti per un’analisi trasversale di tipo qualitativo, al di là dei numeri.

Abbiamo già parlato di un fenomeno che si sta sviluppando fortemente negli Stati Uniti, la Great Resignation, che sta spingendo milioni di lavoratori oltreoceano a lasciare il proprio lavoro, anche senza avere nuove opportunità in vista. Spinti unicamente dal desiderio di riappropriarsi dei propri spazi vitali.

In Italia, si è segnalato, nei mesi scorsi, un approccio diverso al lavoro che molti hanno, forse frettolosamente, equiparato alla Great Resignation. I dati di questo rapporto del Censis, in effetti, segnalano un aumento delle dimissioni volontarie nel 2021 rispetto al 2020, ma di fatto in linea con gli anni pre-covid.

Il punto evidenziato dallo studio, però, sul quale vorremmo far luce, è il seme di un sostanziale distacco emotivo tra i lavoratori e la propria occupazione.  Una sorta di “crisi esistenziale” legata al lavoro in cui maturano nuove insicurezze e un senso di insoddisfazione generale.

Due elementi su cui riflettere.

Il rapporto Censis- Eudaimon ci segnala che  il 56,2% degli occupati non è propenso a lasciare il proprio lavoro.

Questo, però, non perché si è soddisfatti della propria occupazione, ma perché c’è una radicata convinzione che non si troverebbe un impiego migliore. La percentuale sale al 62,2% tra i 35-64enni e al 63,3% tra gli operai.

Un mercato del lavoro di fatto rigido, dunque, guidato dalla paura della precarietà e della mancanza di reddito. Basti pensare che l’82,3% dei lavoratori – una percentuale altissima – si dice insoddisfatto della propria occupazione e ritiene di meritare di più.

Il 58,1% dei lavoratori, inoltre, ritiene di ricevere una retribuzione non adeguata al lavoro svolto. Del resto, è un fatto che negli ultimi vent’anni le retribuzioni medie lorde annue nel nostro Paese si sono ridotte del 3,6% in termini reali (al netto dell’inflazione). In  Germania sono aumentate del 17,9% e in Francia del 17,5%.

C’è un problema di redistribuzione della ricchezza che aumenta la forbice delle disuguaglianze, acuito ora, ancora di più, non solo dalla crisi dovuta al Covid, ma anche dai grossi e sempre più vicini nuvoloni neri all’orizzonte: l’inflazione, il caro energia, la guerra in Ucraina.

Si sta verificando, insomma, un grosso problema emotivo nella relazione lavoratore – occupazione che matura in un contesto di forte precarietà, instabilità, preoccupazione, stress.

I cambiamenti che ha portato il Covid, come ad esempio lo Smart working, se da un lato hanno contribuito ad accelerare le esigenze di diverse organizzazioni del lavoro con un occhio più attento alla conciliazione dei tempi vita – lavoro, dall’altro hanno generato una sostanziale pausa di riflessione nel rapporto con la propria professione.

D’impatto, verrebbe da chiedersi cosa in effetti cercano le persone in un lavoro. Un approccio più introspettivo a questi dati, però, porta a una domanda più radicale: cosa spaventa i lavoratori talmente tanto da indurli a ripensare il concetto stesso di occupazione?

Un quesito fondamentale che bisogna porsi.

In questo senso, il Censis si focalizza sul ruolo del welfare aziendale. Quel sistema, cioè di misure contrattate dai sindacati con le aziende in quella che è definita “contrattazione di secondo livello”  che porta a sviluppare una ragnatela di benefit che risponde ad alcune necessità e bisogni delle lavoratrici, dei lavoratori e delle loro famiglie.

Sicuramente il welfare aziendale è uno strumento di grande prospettiva in questo senso, che ben risponde alla necessità di lavoratrici e lavoratori di avere un supporto in più nei vari fondamentali della vita (assistenza sanitaria, istruzione dei figli, previdenza, benessere psico-fisico) e di maggiore partecipazione alla vita aziendale.

Andando, però, a scavare più nel profondo del problema di relazione che sta nascendo tra persone e lavoro, ciò di cui si avrebbe bisogno prima di tutto è la serenità. La sicurezza. Stop alla precarietà, retribuzioni più alte, organizzazione del lavoro più conciliante, regolamentazione attenta di turni, ferie, permessi che diano valore al lavoro di tutti.

Elementi che solo la contrattazione collettiva nazionale può garantire e che lo sviluppo di uno welfare aziendale può migliorare, rendendo anche più partecipi i lavoratori.

Ben venga, dunque, il welfare aziendale, un pilastro importantissimo che lega lavoratore e azienda e che porta a sentirsi parte di una comunità produttiva, rispondendo alle esigenze specifiche di determinati contesti e aumentando il benessere lavorativo. Il perno principale, però, resta il ccnl, il contratto collettivo nazionale, un quadro definito di regole che dà certezze assolute, nei diritti e nelle retribuzioni. Contrastando il dumping contrattuale e dando forza a tutti i lavoratori, in tutti i contesti, in tutto il territorio.

Servono, poi, politiche del lavoro in grado di cambiare realmente lo status quo, incidendo sulle storture del mercato del lavoro, a partire dal superamento della precarietà.

È un quadro complesso, sicuramente. Senza la base, però, non si costruiscono le altezze.

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