LA CITTA’ CHE SALE (o “IL LAVORO”) di Umberto Boccioni.

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09.01.2025

La “Città sale” (o” Il Lavoro”) fu presentato il 30 aprile 1911 nell’ “Esposizione Arte libera” di Milano.

Il titolo originale di questo grande quadro “Il lavoro” venne abbandonato l’anno successivo, in occasione dell’expo’ di Parigi, per essere sostituito da “La ville monte” (“la città sale” o “che sale”, ideato dal poeta Apollinaire). Si tratta di un quadro di notevoli dimensioni (m.2×3)  ed è l’opera nella quale Boccioni dà corpo alla nuova visione futurista dell’arte; è la trascrizione pittorica della città “dal ritmo incessante”, caratterizzata dal “vibrante fervore notturno degli arsenali”, delle fabbriche, dal movimento ininterrotto “degli automobili” (allora la parola era ancora maschile!) e dei treni in superficie, delle metropolitane sotterranee, delle scale mobili e degli ascensori evocati nel Manifesto Futurista di Marinetti e soci. Sullo sfondo, in alto, non con le forme semplici e chiare del disegno tradizionale, ma con le “linee energetiche”, emergenti da vortici di colore,  una selva di ciminiere, cantieri edili, tram elettrici. In primo piano le figure umane, gli operai, rappresentate come linee di forza oblique, dinamiche e compenetranti che si lasciano andare alla velocità del movimento ma che paiono partecipare anche al moto universale, quasi “appese“ e trascinate dalle gigantesche redini dei cavalli.

In primo piano emerge con straordinaria forza cromatica una possente forma equina dal colore rosso acceso. La bestia appare al galoppo verso sinistra, impennata, con la criniera fiammeggiante e fornita di un “collare” o di una soma blu appuntita, come la pinna di un pescecane. A questa figura centrale se ne affiancano almeno altre tre: la prima e più evidente è quella del cavallo bianco galoppante in direzione opposta; accanto a questo, ma più sullo sfondo, un cavallo impennato solleva il muso verso l’alto, mentre a destra un altro cavallo ancora galoppa in direzione opposta.

Forse la presenza dei cavalli potrebbe apparire fuori luogo in un quadro che celebra il “macchinismo”, l’automazione, la rivoluzionaria tecnologia industriale. Infatti, questa è l’era dell’automobile e dei primi voli aerei, dei grandi piroscafi transoceanici, del cinema e della radio, del telefono e del tram elettrico, del grattacielo e della mitraglia. È il secolo che si apre con la tragedia del Titanic ma che non nutre dubbi sulle magnifiche sorti e progressive della tecnologia.

Ma allora, perché i cavalli? Forse perché questo animale presenta una forte valenza simbolica e mitologica e ciò si addice molto bene alla nuova mitizzazione creata dal Modernismo prima e dal Futurismo poi. Così come nell’arte pubblicitaria compare la figura di Ermes-Mercurio, dio della velocità, allo stesso modo il cavallo ne diviene icona. Non si può non pensare, tra l’altro, che il cavallo vermiglio al centro del dipinto richiama il nome della cavalla “Vermiglia” che, in un’operazione militare nel corso della guerra del 1916, disarcionò Boccioni provocandone la morte prematura.

Ogni oggetto, ogni forma è “futurizzata”, cioè rappresentata nel suo divenire dinamico e dunque, nella sua metamorfosi; anche la luce modifica la materia che si sfarina annullando la stabilità delle forme.

Il movimento e la luce distruggono la materialità dei corpi, li rendono trasparenti, intersecabili e compenetrabili. La materia, di per sé, non è più unita e compatta, appare piuttosto (come diceva la scienza contemporanea) spugnosa e lacunosa, cioè fluida e compenetrabile.

Negli scritti di Marinetti e Boccioni si sente l’influenza delle nuovissime teorie di  Mach (per il quale spazio-assoluto e tempo assoluto non sono che due inutili concezioni metafisiche) e di Einstein, per cui lo spazio non è più concepito come assoluto, geometrico e tridimensionale ma relativo, curvo, fluido, pluridimensionale e connesso col tempo; è il momento della formulazione della teoria dell’elettromagnetismo, della scoperta dell’energia dell’atomo, dei raggi X e della radioattività che mettono in crisi la concezione della stabilità della materia e ridisegnano lo spazio come campo elettrodinamico. È il periodo del romanzo del “flusso di coscienza”

così le distanze tra un corpo e un altro, per la pittura di Boccioni, non sono più spazi vuoti ma delle continuità di materia di diversa densità.

Anche il colore possiede una connotazione decisamente antinaturalistica e artificiale: assomiglia a quello che si produce negli altiforni, con le lampade ad incandescenza o nelle violente reazioni chimiche.

In questa immagine, al principio ottico della persistenza delle immagini sulla retina, si accompagna il principio bergsoniano della persistenza dei contenuti della coscienza, ovvero il principio della “durata”. Così le figure si compenetrano e si intersecano tra di loro e con lo sfondo come avviene nel “flusso del pensiero” dove le forme e le esperienze, appunto, costituiscono un flusso dai contorni poco netti senza confini concettuali precisi e definiti.

Questa nuova “visione” trae ispirazione e si alimenta non più dalla natura o dalla realtà ma dagli stimoli artificiali della civiltà industriale e della vita urbana. Viene celebrata la città moderna, la città industriale, la “nuova Babele” che si sviluppa e cresce con un ritmo continuo ed irresistibile e si esalta il lavoro umano eroico e titanico, capace di superare e abbattere tutti gli ostacoli che gli si frappongono.

L’uomo, artefice di questa opera immane, non conosce limiti al proprio agire: egli è il nuovo Prometeo che sottomette la materia e che domina le forze e le energie necessarie per plasmarla.

In questo dipinto, divisionista nei modi ma già futurista nel tema, emergono potentemente i richiami formali della storia pittorica recente: c’è Balla, c’è Morbelli, Longoni ma anche Pellizza da Volpedo, cioè quegli artisti che Boccioni considera i suoi maestri.

Il tocco pittorico di Boccioni è chiaramente derivante dallo stile divisionista: l’accostamento, l’intreccio e/o la sovrapposizione di filamenti di colori primari e complementari lo testimonia abbondantemente.

La luce, tramite il colore, è polverizzata in mille corpuscoli che denotano il brulichio di energie che si irradiano. Qui viene evocata l’atmosfera delle nuove metropoli, delle città industriali, delle periferie in espansione: è presente l’esaltazione del “nuovo” contro l’antico, contro la tradizione su cui si scatenano le energie futuriste, quelle che vorrebbero abbattere tutto ciò che sa di archeologico e di storico, ponendo fine, una volta per tutte, alla predilezione italica per le città d’arte. Per questo motivo si esaltano le periferie e gli scavi di demolizione e sventramento dei quartieri antichi e si celebrano le zone marginali della realtà urbana: i nuovi edifici quali le stazioni ferroviarie, le centrali idroelettriche, le dighe, le fabbriche e le ciminiere fumanti per mezzo delle quali la città cresce (sale) freneticamente.

L’arte futurista, teorizzata da Marinetti, Boccioni e compagni, trova in questo quadro (ormai considerato uno dei capolavori della pittura del ‘900) la sua più felice e autentica espressione.

Il Futurismo, come si legge nel “Manifesto” del 1909, odia le città d’arte come Venezia, Firenze, Roma e vorrebbe, possibilmente raderle al suolo. Canta, per converso le lodi di New York, la nuova Babele, la città dal ritmo incessante caratterizzata dal “vibrante fervore notturno degli arsenali e illuminata da violente lune elettriche”.

La “Città del futuro” del giovane architetto futurista Sant’Elia, compagno di “battaglie” culturali e compagno d’armi (e come Boccioni morto giovanissimo nella Prima guerra mondiale) dove la forma deve essere assolutamente sobria e funzionale alla destinazione d’uso della struttura.

È la città del futuro, frutto della nuova estetica della tecnologia moderna, deve rispondere alle necessità della vita contemporanea ed essere fatta con materiali moderni; priva di elementi decorativi, caratterizzata da audaci raggruppamenti di masse e superfici nude.

Perché nascondere gli ascensori e le scale mobili dentro gli edifici quasi fossero tenie dentro l’intestino animale ? (Si domandava il geniale architetto Antonio S.Elia che, però, non fece in tempo a costruire un edificio come questo lasciandone la possibilità a Renzo Piano nell’ascensore esterno del Centre Pompidou qualche tempo dopo!).

L’estetica moderna non deve celebrare più la natura ma l’artificio; non canta più il vento o la tempesta ma il treno, l’automobile e il piroscafo a vapore; non celebra più la luna ma la lampada elettrica. Il nuovo ideale di bellezza nasce dalla moderna “teoria dell’artificio” dall’ antinaturalismo. “E’ dalla frequentazione delle città, dall’incrociarsi frenetico dei rapporti innumerevoli che si vivono in essa che scaturisce l’estetica della modernità” (scriveva già il “vecchio” Baudelaire nello “Spleen di Parigi”).

D’altro canto, la città moderna non è soltanto quella futurista (dinamica, simultanea, compenetrante) ma anche quella, all’opposto, statica, inquietante e straniante di De Chirico dove il tempo pare essersi fermato o quella dei “paesaggi urbani” di Sironi squadrati, duri, dalle finestre scure e dall’aspetto vagamente minaccioso, intervallati dalle ciminiere fumanti e dai veicoli che attraversano le sue strade.

Nel dipinto di Boccioni lo spazio e il tempo appaiono come dimensioni relative e modificabili dalla coscienza. Lo spazio urbano, in particolare, venuta meno la visione “positiva” conoscibile e misurabile della prospettiva appare frammentario, pluridirezionale e| privo di direzioni stabilite. Il tempo pare essere quello della “durata”, il tempo soggettivo dell’anima che crea sovrapposizione di sensazioni e compenetrazione simultanea di presente, passato e futuro. Per questo un percorso urbano abituale, quando si percorrono territori familiari e conosciuti, può essere una sorta di viaggio di Ulisse (come nell’opera omonima di Joyce) in cui le vie e gli scorci urbani ormai rapidamente mutevoli, possono apparire in una luce insolita creando nuove epifanie e provocando nuove illuminazioni.

L’opera, acquistata all’epoca dal musicista Ferruccio Busoni, si trova oggi al Metropolitan Museum di N.Y.

Licia Lisei, Storica dell’arte

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