Il terrorismo che uccide i riformisti. In ricordo di Marco Biagi

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19.03.2023

Il 19 marzo del 2002, Marco Biagi stava tornando nella sua casa nel centro di Bologna, a pochi passi da Piazza Maggiore. Lo faceva con la bici, come tanti fanno lì.

Fu freddato a colpi di pistola da un commando terroristico delle nuove brigate rosse. Un gruppo di folli, che affonda le radici in una delle peggiori pagine della nostra storia: la violenza terroristica degli anni Settanta. Quella che si nutriva di estremismo e massimalismo; che rifiutava il metodo democratico, il dialogo. Che uccideva persone ritenute simboli di una cultura e di un’idealità che rifiutavano: quella democratica.

Marco Biagi fu un docente di diritto del lavoro, che tentava di cogliere quello che in quei primi anni Duemila stava mutando nel lavoro, nelle sue modalità organizzative e nelle forme della produzione. Ciò che si tenta di fare anche oggi, di fronte alle trasformazioni che la digitalizzazione del lavoro e dell’organizzazione produttiva stanno producendo ad una velocità vertiginosa.

A partire dagli anni Novanta ricoprì numerosi incarichi governativi come consulente di diversi ministeri. Un cattolico che in gioventù seguì l’aclista Livio Labor nella sua esperienza politica dell’MPL (Movimento politico dei lavoratori). Quando alle elezioni politiche del 1972 l’MPL fallì i suoi obbiettivi, senza conseguire eletti in Parlamento, Biagi seguì nuovamente Labor nel Partito socialista italiano.

Nel Psi, Biagi ritrovò il suo primo maestro: il giuslavorista Federico Mancini, che insieme a Gino Giugni ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo del diritto del lavoro e delle relazioni industriali nel nostro Paese.

Quando fu ucciso, Biagi era consulente del ministro del lavoro Maroni. In precedenza, lo era stato anche di Tiziano Treu nel 1995. Nel 1996 ricoprì l’incarico di Presidente della Commissione di esperti per la predisposizione di un testo unico in materia di sicurezza e salute sul lavoro.

Contro di lui si scatenò un’enorme campagna denigratoria. Aveva avuto anche la scorta, ma quando morì ne era privo. La sua morte ha delle analogie fortissime con quella di Massimo D’Antona, avvenuta il 20 maggio del 1999. Anch’egli consulente di un ministro del lavoro: in questo caso Bassolino.

Ciò che accomunava entrambi era l’essere dei riformisti. Come riformista era Gino Giugni, il padre dello Statuto dei lavoratori, quando fu gambizzato dalle Brigate Rosse il 3 maggio 1983, mentre stava camminando a Roma. Prima vittima di un cambio di strategia delle BR: ovvero, quello di prendere di mira i cosiddetti “cervelli” dello Stato.

Riformista era il professor Ezio Tarantelli, che fu ucciso dalle brigate rosse, sempre nella Capitale, il 27 marzo del 1985, appena finita una lezione universitaria. La sua colpa? Aver avuto il ruolo di consulente della CISL nell’accordo tra governo e sindacati sul taglio degli scatti di scala mobile; provvedimento resosi necessario vista la spirale inflazionistica che stava colpendo l’Italia, erodendo il potere d’acquisto dei salari.

Biagi, come tutti gli altri lavoristi presi di mira dalle BR, feriti o uccisi con brutalità, rappresentava con i suoi colleghi una sorta di anello di congiunzione tra le istituzioni e il mondo economico. Un mondo che non può mai essere rappresentato da una istantanea, perché muta continuamente, e per questo ha bisogno di interventi di riforma.

La storia ci insegna che i migliori provvedimenti sono sempre stati quelli attuati con il metodo del riformismo sociale. “L’opzione riformista” è sempre stata antidogmatica, pacifica, legalitaria, gradualista, democratica e liberale. Lo Statuto dei lavoratori ne è uno dei migliori esempi. E questo ai terroristi non piaceva affatto, perché il loro era un mondo manicheo, incapace di capire la complessità delle cose. Ma soprattutto violento, per una scelta ideologica che rifiuta la possibilità e le condizioni della lotta politica pacifica, pur se non scevra da conflitti.

Contro le Br il sindacato ha lottato sempre e con coraggio nei momenti più bui, alzando quelle paratie che hanno permesso al nostro Paese di continuare nel cammino della democrazia.

Ricordare Marco Biagi, quindi, è un dovere per chiunque creda nella sacralità della vita umana. Ma non solo. È il modo di porsi in totale antitesi verso chiunque non creda nel confronto dialettico, nel rispetto dell’altro e nel ripudio di ogni forma di violenza come arma di affermazione delle proprie idee.

 

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