Il Sudan tra guerra civile e carestia. Una crisi umanitaria senza precedenti
09.10.2024
“Non resteranno, Paul. Non fermeranno la carneficina”, così il Comandante dei Caschi Blu si rivolse a Don Cheadle, che nel film “Hotel Rwanda” interpreta Paul Rusesabagina, l’imprenditore ruandese che salvò oltre 1200 persone da una morte certa.
Nel tragico aprile del 1994, L’ONU e i Governi occidentali rimasero inerti, incapaci di intervenire per fermare il genocidio che in meno di cento giorni uccise più di 500 mila persone, prevalentemente di etnia tutsi. Un fallimento analogo si verificò a Srebrenica nel luglio del 1995, quando 8000 uomini e ragazzi bosgnacchi furono brutalmente massacrati su ordine del Generale serbo Ratko Mladić, nonostante la presenza di un contingente ONU con il compito di proteggere la popolazione civile. In entrambi i casi, l’occidente si mobilitò solo quando fu troppo tardi e il massacro si era già consumato, come ben spiegò Samantha Power nel suo saggio “Voci dall’inferno”.
Darfur: il Risveglio della coscienza internazionale
Così nel 2003, quando le tensioni mai sopite tra i due gruppi etnici del Darfur deflagrarono in aperto conflitto, la comunità internazionale sembrò aver appreso la lezione del decennio precedente e si mobilitò per arginare le violenze nella regione.
Difatti, nell’aprile dello stesso anno, il Governo di Khartoum, appoggiando il gruppo etnico arabo – maggioritario nel Paese ma in minoranza nella provincia occidentale del Darfur – diede inizio a una campagna di pulizia etnica contro la popolazione non-araba della regione. Il Presidente Omar al-Bashir ottenne il sostegno di una milizia armata locale filo-islamista nota come “Janjaweed”, letteralmente “demoni a cavallo”. Nei cinque anni di guerra che seguirono furono più di 400 mila le persone che morirono, vittime di brutali violenze e della carestia utilizzata come strumento di guerra.
Star internazionali, intellettuali, politici si mobilitarono per tenere alta l’attenzione mediatica sul dramma che si stava consumando nel Darfur. Nel settembre del 2004, l’allora Segretario di Stato americano, Colin Powell, affermò dinanzi al Congresso che il Dipartimento americano aveva raccolto prove sufficienti per poter affermare con una certa sicurezza che le milizie Janjaweed si erano rese responsabili di atti di genocidio. Grazie all’attenzione mediatica, nel 2007 il Consiglio dell’ONU autorizzò una missione di pace, la UNAMID, in collaborazione con l’Unione Africana, con l’obiettivo di portare stabilità nella regione sudanese devastata dalla guerra. Successivamente, la Corte penale internazionale accusò Omar al-Bashir di essere responsabile di genocidio e crimini contro l’umanità. Sebbene quest’ultimo riuscì a sfuggire alla giurisdizione della Corte dell’Aia, il mandato di cattura rappresentò, comunque, un importante segnale: così gravi crimini non sarebbero rimasti impuniti.
Dalla rinascita alla guerra civile
Nemmeno due decenni dopo, il conflitto etnico nell’area si è riacceso e la carneficina che si sta compiendo è, per molti versi, peggiore di quella di allora ma stavolta sta avvenendo nella più totale indifferenza del mondo.
Le cause dell’attuale situazione risalgono al 2019, quando prevalentemente giovani uomini e donne scesero nelle strade e, sfidando il pericolo di barbare repressioni, posero fine al governo militare di al-Bashir. I manifestanti speravano di costruire un futuro di maggiore democrazia e libertà per Khartoum.
Tuttavia, il percorso verso questo obiettivo non fu lineare. Appena sei mesi dopo, le milizie note come “Forze di Sostegno rapido” (Rapid support forces, RSF), guidate dal generale Mohamad Hamad Dagalo (detto Hemedti) e composte principalmente dalle milizie di Janjaweed, soffocarono nel sangue le proteste, uccidendo oltre 100 persone. Nonostante ciò, nello stesso periodo nacque il primo governo civile nella storia del Paese, guidato dal Primo Ministro Abdallah Hamdok, un economista di rilievo mondiale con una carriera all’interno delle Nazioni Unite.
Durante il suo mandato, Hamdok introdusse riforme significative, come la messa al bando delle mutilazioni genitali femminili e l’abolizione della pena di morte per l’omosessualità e apostasia.
Purtroppo, la speranza si spense rapidamente. Hemedti si alleò con il Generale Abdel Fattah al-Burhan, comandante delle Forze armate sudanesi (Sudan armed forces, SAF), e nell’ottobre 2021 organizzarono un colpo di stato che destituì il governo di transizione democratica. Tuttavia, le rivalità tra i due generali non cessarono; anzi, la condivisione del potere acutizzò le tensioni, fino a culminare il 15 aprile del 2023, quando le forze paramilitari RSF attaccarono il quartier generale dell’esercito regolare.
Il crollo delle istituzioni civili ha segnato, inoltre, la fine delle speranze per le libertà sindacali. La Confederazione sindacale internazionale, già nel corso del 2021, intervenne a sostegno dei sindacati sudanesi, i quali erano in prima linea nell’opposizione al ritorno dei militari al potere. Recentemente, la Presidente dell’ITUC, Akiko Gono, ha ricordato come “i diritti dei lavoratori possono essere garantiti solo in un sistema che garantisca e rispetti altri diritti umani fondamentali”, chiedendo alle Nazioni Unite e all’Unione Africana di mobilitarsi prima di giungere allo scoppio di un conflitto inarrestabile.
Una crisi umanitaria senza precedenti
Purtroppo, la situazione è ulteriormente precipitata, e da aprile 2023 il Paese è lacerato da una guerra civile che ha coinvolto l’intera nazione. Il conflitto ha causato la morte di almeno 150 mila persone, più di 245 tra città e villaggi sono stati distrutti. La Capitale Khartoum, epicentro dei violenti scontri iniziali, è stata parzialmente rasa al suolo. Il 20% della popolazione è stato costretto a lasciare le proprie abitazioni e attualmente oltre 8 milioni di persone vivono in condizioni disperate nei campi profughi creati all’interno del Paese. Le riserve di acqua potabile sarebbero scarse e l’assistenza sanitaria pressoché inesistente, come riferito dalla ONG Care. Malattie come il colera si stanno diffondendo rapidamente. Médecins Sans Frontières ha sottolineato come l’80% delle strutture mediche siano totalmente inagibili, distrutte dai bombardamenti delle due fazioni in guerra.
A maggio di quest’anno, le Nazioni Unite hanno avvertito che 18 milioni di sudanesi soffrono “gravemente” la fame e 3.6 milioni di bambini sono in uno stato di “grave malnutrizione”. Secondo una proiezione del think-tank olandese, Clingendael Institute, entro la fine dell’anno potrebbero morire più di 2 milioni di persone a causa della carestia e qualora il conflitto dovesse continuare anche il prossimo anno, più di 10 milioni di persone potrebbero morire a causa della mancanza di cibo.
La terrificante carestia che ha colpito il Sudan è, d’altronde, uno strumento di guerra, deliberatamente utilizzato da ambo le parti in conflitto. I due belligeranti sono stati accusati di utilizzare la consegna degli aiuti umanitari come strumento di pressione, bloccando l’accesso a cibo e materiale sanitario nelle zone controllate dalla controparte. Come ricordato da Samantha Power, Direttrice di USAID (l’Agenzia americana per la Cooperazione), gli aiuti umanitari – seppur ancora insufficienti – ci sono ma restano fermi alle frontiere del Sudan o nei container a Port Sudan senza poter essere consegnati alla popolazione civile che al contempo muore per inedia.
Teatro di influenze regionali e globali
La crisi in corso in Sudan non è solo la recrudescenza di un conflitto etnico o una lotta di potere tra due signori della guerra. È un conflitto caotico in un mondo multipolare e frammentato. La gestione cleptocratica e corrotta del potere ha reso il Sudan un campo di battaglia per le potenze regionali che hanno contribuito ad alimentare il conflitto.
Difatti, senza l’intervento massiccio degli Emirati Arabi Uniti a sostegno di Hemedti, le RFS non avrebbero avuto i mezzi necessari per opporsi così a lungo all’esercito regolare sudanese. In cambio del sostegno militare, Dubai avrebbe ricevuto, nel corso del solo 2022, 39 tonnellate d’oro per un valore complessivo di 2 miliardi di dollari. Hemedti, uno degli uomini più ricchi del Paese, controlla alcune delle miniere d’oro più redditizie e, grazie all’aumento del commercio del prezioso minerale, i suoi legami con la monarchia del Golfo si sono rafforzati. Negli ultimi anni, la RFS ha fornito forze mercenarie per combattere a fianco degli Emirati sia in Libia sia in Yemen. Ma il sostegno emiratino alle forze paramilitari della RFS si inserisce in una strategia più ampia volta a consolidare l’influenza del Paese sull’intera area del Mar Rosso.
Altri attori globali, come la Russia, condividono interessi strategici simili. Sebbene inizialmente la milizia Wagner aveva dato ampio sostegno alle RFS, il Cremlino ha progressivamente adottato una posizione più ambigua, sostenendo discretamente entrambe le parti in conflitto. Questa strategia mira a preservare l’accesso russo al commercio dell’oro, una risorsa cruciale per finanziare gli sforzi bellici di Mosca in Ucraina. Inoltre, la Russia sarebbe interessata ad ottenere il controllo di un porto sulla costa sudanese così da rafforzare la sua presenza sul Mar Rosso e quindi sull’importante rotta commerciale che attraversa questa regione.
Analoga mira del Governo iraniano, avendo recentemente ristabilito i rapporti diplomatici con Khartoum, interrotti nel 2015 a causa delle pressioni saudite. Gli iraniani forniscono aiuti militari alle forze militari regolari sudanesi in cambio della possibilità di estendere la propria influenza su un’area tanto strategica.
Il futuro del Sudan e le conseguenze globali
La tragedia che si sta consumando in Sudan dovrebbe spingerci ad interessarci e intervenire per porre fine alle sofferenze di una popolazione stremata; le immagini di bambini malnutriti dovrebbero scuotere le nostre coscienze; le larghe fosse comuni, inquietante testimonianza di un nuovo probabile genocidio, dovrebbero farci riflettere su quanto poco abbiamo imparato dalla storia recente.
Se tutto ciò non bastasse a destare la nostra attenzione, occorrerebbe comprendere che quanto sta accadendo in Sudan è solo il preludio di futuri conflitti.
Il protrarsi delle ostilità e il rischio di un collasso interno del Paese potrebbero avere conseguenze devastanti sull’intera area del Corno d’Africa, già ampiamente destabilizzata dalla guerra etnica in Etiopia e il contrasto con l’Egitto per il controllo delle acque del Nilo. Inoltre, la posizione strategica del Sudan la cui costa si affaccia su una delle rotte commerciali più importanti al mondo, con il 10% del commercio globale che transita annualmente attraverso il Mar Rosso, rende evidente che la discesa di Khartoum nel caos avrà ripercussioni su scala globale.
Ufficio Internazionale
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