Il riformismo sindacale protagonista della nascita della CGdL
29.09.2023
Rinaldo Rigola, il primo segretario generale della CGdL affermava, che “per Confederazione, dunque, si deve sempre intendere l’organizzazione delle organizzazioni, non quelle soltanto di una data industria o di un mestiere. All’organismo che abbraccia tutte indistintamente le organizzazioni professionali viene dato di solito il nome di Confederazione Generale del Lavoro […] perché – relativamente ai compiti che gli son assegnati – le categorie, i mestieri, le industrie spariscono per lasciar posto soltanto al lavoro – sostantivo che sta a indicare l’attività universa degli uomini che insieme formano una categoria economica con caratteristiche proprie”.
In questo passo, non c’è solo la descrizione tecnica di un modello associativo. È ben riconoscibile, invece, anche un’idea politica di sindacato, che nei fatti (e con le debite differenze rispetto alla diversità delle epoche) è arrivata fino a noi. Un’organizzazione che, quando fu realizzata, rappresentava una sfida difficilissima, ai limiti dell’impossibile, sia per questioni economico-sociali che politiche.
L’Italia di fine Ottocento e inizio Novecento era un paese dove la rivoluzione industriale cominciava ad affacciarsi, in ritardo rispetto alle nazioni più progredite come Gran Bretagna, Francia e Germania.
La massa della forza lavoro presentava delle caratteristiche peculiari, tra cui l’estrema disomogeneità. In essa “convivevano” un’ancora prevalente mondo bracciantile e contadino, fatto spesso di una moltitudine povera e analfabeta, quanto un nascente movimento operaio, che viveva la durezza della fabbrica padronale, fatta di orari massacranti e condizioni di lavoro impossibili, anche per donne e bambini.
Nel PSI, al cui interno militavano la maggior parte dei sindacalisti, persisteva lo scontro politico tra due diverse e inconciliabili modi di intendere il socialismo: ovvero, quello riformista e gradualista che mirava alla conquista della democrazia politica per favorire la crescita del benessere del proletariato e quello massimalista e rivoluzionario, che voleva abbattere lo stato “borghese” e instaurare la dittatura del proletariato.
Questo scontro ideologico, determinava non solo confusione, ma rendeva difficile la convivenza all’interno degli organismi di rappresentanza e tutela del movimento operaio (Federazioni, Lege di resistenza, Camere del Lavoro).
Nel 1902, era stato creato un organismo centrale di rappresentanza degli interessi economici, con l’intenzione di porlo alla guida degli organi di lotta: il Segretariato Nazionale della Resistenza.
Compito del Segretariato – voluto dai riformisti – sarebbe stato quello di impedire fiammate impulsive delle masse i conseguenti scioperi improvvisi, spesso inefficaci e controproducenti per i lavoratori. L’obbiettivo era quello di favorire prima di tutto la contrattazione. Lo sciopero andava usato con parsimonia e solo come ultima ratio.
Dopo l’eccidio di Buggerru del settembre 1904, ci fu il primo sciopero generale in Italia – gestito dai massimalisti – che non portò ad alcun risultato concreto. Anzi, diede la possibilità al fronte moderato di rafforzarsi nelle elezioni anticipate che ne seguirono.
I riformisti, vista l’impossibile convivenza con le frange più estreme del movimento, decisero di fare un passo importante, quanto storico.
Fu Ernesto Verzi, segretario della FIOM, a proporre la costituzione di una Confederazione nazionale, imperniata sulle federazioni di mestiere, in un convegno tenutosi a Milano il 4 marzo del 1906.
Così, approvata la proposta di Verzi, nella stessa città meneghina, e precisamente presso la Camera del lavoro, tra il 29 di settembre e il 1° ottobre del 1906, si svolse il congresso costitutivo della CGdL (esperienza che non va confusa con la CGIL a maggioranza comunista del Secondo Dopoguerra), di fatto voluta e capeggiata dai riformisti. I massimalisti, pur se presenti all’assise, decisero di non farne parte.
Rigola ne fu eletto segretario generale. Lui e i suoi compagni erano tutti dall’idea che l’organizzazione fosse un fattore decisivo per la buona riuscita delle lotte, fuori da logiche di estemporaneità che fin ad allora avevano acceso la miccia a manifestazioni degenerate spesso in jacqueries.
Era in queste forme scomposte di protesta che – secondo i riformisti – si innestava spesso la reazione, foriera di morte, sofferenza e arretramento delle conquiste. Anche lo sciopero generale andava utilizzato con consapevolezza rispetto a fini economico-sociali di natura sindacale, non come arma eversiva.
Gli anni in cui nasce e si consolida la struttura confederale, videro un intenso studio del tradunionismo di stampo britannico da parte dei dirigenti sindacali, molto attenti al pragmatismo fabiano.
Il marxismo era la loro ideologia di riferimento, ma di Marx valorizzavano e condividevano la fiducia nel progresso tecnico; rifiutavano, invece, la previsione che il filosofo di Trevisi faceva rispetto all’inevitabile immiserimento del proletariato nello stato capitalistico-borghese.
I fondatori della CGdL erano di fatto degli industrialisti (anche perché fortemente influenzati dal positivismo). L’industria era considerata sinonimo di progresso e la fabbrica, doveva divenire il laboratorio dell’organizzazione per antonomasia, con la valorizzazione delle relazioni industriali.
La realizzazione del socialismo doveva arrivare in modo pacifico e legalitario, con un cambiamento sociale graduale.
La CGdL tendeva a valorizzare il livello federale, visto come in grado di coordinare meglio le lotte, rispetto alle Camere del lavoro, ritenute troppo localistiche e poco adatte al disegno politico-organizzativo di Rigola e dei suoi compagni.
Fondamentale era la formazione di operatori stabili, tecnicamente preparati e in gradi di gestire in maniera continuativa il lavoro sindacale.
La nuova CGdl con limiti, difetti e difficoltà, iniziò il suo cammino. Lo fece in un contesto socioeconomico molto arretrato e difficile da governare. Ma forse, sta qui il più grande successo dei riformisti: aver innestato un’organizzazione avanzata in una società ancora poco progredita e in parte preindustriale. Una sfida rispetto a un processo di modernizzazione che stava investendo anche L’Italia e del quale doveva far parte, come protagonista, anche il proletariato.
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