Il “Rapporto Beveridge” e la più grande innovazione del XX secolo: il Welfare State
30.11.2023
Nel 1941, la Gran Bretagna era ancora impegnata nello sforzo bellico contro gli eserciti nazifascisti. Le sue città venivano continuamente bombardate; rese, come nel caso di Coventry, un cumulo di macerie. Eppure, nel giugno del ’41 già si pensava al dopo. A un futuro che molti di noi avrebbero stentato a intravedere in un’Europa devastata e dove i morti saranno alla fine decine di milioni.
In quel torno di tempo, però, il ministro britannico per la ricostruzione costituisce un comitato interdipartimentale denominato “Social Insurance and Allied Services”, con il compito di studiare tutte le anomalie che nel cinquantennio precedente avevano caratterizzato la crescita – scomposta e frammentata – del sistema di sicurezza sociale. Nei fatti, questa decisione sarà la pietra fondativa del Welfare State universalistico.
William Beveridge: un liberale senza dogmi
A presiederlo fu chiamato lord William Beveridge, un liberale che non era persuaso dall’idea dogmatica secondo cui il mercato si riequilibri da sé, in maniera naturale. Convinto, inoltre, che fosse necessario procurare alle persone “prima, pane e salute per tutti; dolce e circenses, poi”.
Il suo radicalismo liberale voleva evitare gli errori “sia dei cosiddetti individualisti, i quali a tutte le libertà attribuiscono la medesima importanza, sia dei collettivisti, i quali auspicano l’estensione delle responsabilità dello Stato per amor di principio”. Perché, ribadiva, era “diritto di tutti fruire delle libertà fondamentali assicurate dalla legge”, in una società in cui il “progresso materiale [fosse] inteso come mezzo per il miglioramento della vita spirituale”.
Sul tema del rapporto pubblico/privato affermava di non temere affatto né il controllo statale né la proprietà privata, “là dove l’uno o l’altra risulti occorrente per curare i mali che non sono curabili altrimenti”.
Quello passato alla storia come “Rapporto Beveridge” venne presentato al Paymaster General di Sua Maestà il 20 novembre del 1942 e reso pubblico il successivo 1° di dicembre. I soggetti coinvolti come beneficiari non erano solo i poveri, ma i cittadini in quanto tali. Un vero e proprio progetto di società del benessere post-bellica, basata su una più incisiva ed equa redistribuzione della ricchezza.
Ma non solo. In Beveridge era chiara l’idea che non si dovessero ripetere gli errori commessi dopo la fine della Prima guerra mondiale, quando si pensava “alla possibilità di tornare ai bei tempi passati”. Nel 1945, invece, era necessario costruire in Gran Bretagna qualcosa di nuovo, come del resto avverrà in tutto l’Occidente: un modello sociale che garantisse “lavoro per tutti in una società libera”. “Nessun bambino – scrisse Beveridge – dovrebbe patire il freddo e la fame, vivere in una casa malsana o essere insufficientemente vestito perché i suoi genitori non guadagnano abbastanza per soddisfare le necessità della famiglia”.
L’elaborazione di questo modello di welfare state avrebbe dovuto essere compatibile con l’economia di mercato e il capitalismo, sviluppandosi all’interno di un regime pienamente liberaldemocratico.
Una vera piattaforma ideologica per fondare una società diversa
Il “Rapporto Beveridge”, se da una parte è un documento di natura tecnica, dall’altra si presenta come una vera e propria piattaforma ideologica su cui fondare una società del tutto diversa, in cui i diritti sociali sono riconosciuti pienamente e fattivamente come diritti di libertà e cittadinanza.
Un obiettivo da raggiungersi attraverso un “complesso di misure che vadano, come i tempi richiedono, alla radice delle ingiustizie e delle miserie sociali, i terribili mali sociali che si chiamano Indigenza, Malattia, Squallore, Inattività forzata e Ignoranza, che in passano hanno deturpato la Gran Bretagna”.
Beveridge, quindi, chiede al governo del suo paese che la sicurezza sociale copra ogni cittadino e non solo chi abbia un lavoro regolare; che si unifichino i fondi pubblici di sicurezza, per razionalizzarne l’uso e improntarlo ad equità; che l’assistenza sanitaria spetti all’intera cittadinanza perché la salute è un diritto naturale; che si adottino politiche attive del lavoro contro la disoccupazione; che si calcoli un reddito minimo pro capite in grado di definire il livello di sussistenza nazionale, di cui lo stato si debba far garante e che sia un solo ministero ad occuparsi d tutte le politiche di natura sociale e assistenziale.
La lezione del New Deal di Roosevelt
La stesura del “Piano” fu fatta anche sulla scorta della lezione appresa con la crisi economica mondiale del 1929, passa alla storia come “Grande depressione”, e che ebbe il suo epicentro negli Stati Uniti con il crollo della Borsa di Wall Street. Per superarla, l’allora presidente USA Franklin D. Roosevelt adottò un programma di riforme economiche e sociali fra il 1933 e il 1937, conosciuto con il nome di New Deal. E sarà infatti lo stesso Roosevelt che nel 1941 enuncerà le quattro libertà di cui ogni persona dovrebbe godere. Perché accanto alla libertà di espressione, alla libertà religiosa e libertà dalla paura si affiancava con pari dignità anche libertà dal bisogno e dalla miseria.
Secondo la teoria della cittadinanza – formulata dal sociologo T. H. Marshall nel 1948 – in Gran Bretagna gli individui avevano ottenuto prima i diritti civili (tra la metà del XVII e l’inizio del XIX secolo) e poi i diritti politici (1832-1918). Ora era giunto il momento di assicurare alle persone i diritti sociali. E ciò avvenne attraverso l’istituzionalizzati del Welfare State, la più grande innovazione del XX secolo.
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