Il giorno della libertà

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25.04.2022

La memoria è come un enorme magazzino nel quale conserviamo le tracce della nostra esperienza passata, cui attingere per riuscire ad affrontare situazioni di vita presente e futura.

Questo archivio non è un luogo di sola sedimentazione, fermo, passivo ma può essere definito come un «costruttore attivo di rappresentazioni sul mondo». Serve a catalogare ciò che è stato ma anche, e forse soprattutto, a rendere possibile quello che vogliamo che sia per noi il futuro. La memoria, quindi, lavora anche da spartiacque e allo stesso tempo da lievito per il progresso morale, civile e sociale.

Il 25 aprile è per noi italiani una data fondamentale per la memoria collettiva. Rappresenta l’inizio della nostra vita da persone libere, in un Paese che per vent’anni era sprofondato in una terribile dittatura e in una guerra che, usando le parole di Giaime Pintor, «ha dissolto gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale […]». «Una guerra infame – annotava Nenni nel suo taccuino del 1942 – che costa al popolo fiumi di sangue, ne esaurisce le energie, ne umilia la dignità».

Il giorno in cui si commemora la liberazione non è solo una data su un calendario tinta di rosso. Prima di tutto, rappresenta un momento di maturazione morale e politica per un popolo che ha sofferto una stagione di servitù e vergogna, ma che da lì in poi diveniva arbitro del proprio futuro, in un processo sempre in divenire ma basato su forti valori condivisi.

Il 25 aprile è la vittoria della democrazia sul nazismo e sul fascismo.

Un punto fondamentale su un filo che si dipana all’indietro, ma che non ha ancora finito di tessere in avanti. A meno che non si voglia ingenuamente (e pericolosamente) credere nelle palingenesi o in una esperienza in sé conchiusa, piuttosto che in un processo generale di rinnovamento progressivo civile e sociale in un terreno fertile quanto complesso quale è quello della democrazia.

Un filo, appunto, che tiene insieme i martiri del fascismo come Di Vagno, Buozzi, Matteotti, Gramsci, Silvio Trentin, i fratelli Nello e Carlo Rosselli e centinaia di altre persone cadute per la libertà per mano dell’oppressore.

Un filo che passa nelle leghe, nei sindacati operai, nelle cooperative e nei liberi giornali distrutti e saccheggiati dai fascisti.

Che si riannoda nei luoghi di confino come quella Ventotene dove nacque l’omonomo Manifesto, che non a caso aveva come primo titolo Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto, ed in cui Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, visti i drammi prodotti dalla guerra e dal nazionalismo auspicavano «un’Europa libera e unita (come ndr) premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto». E non si sbagliavano, visto anche i tristi accadimenti dei nostri giorni.

Un filo che non può dimenticare i fuoriusciti, i quali, come ci descrive Aldo Garosci, hanno tentato di far rimane accesa la fiamma della libertà, cercando di influenzare gli avvenimenti politici, attraverso agitazioni ardite e imprese avventurose, con la lotta aperta e armata, la propaganda; nello sforza difficilissimo, viste le condizioni in cui versavano, di mantenere in vita le tradizioni politiche del periodo democratico.

Su questo filo troviamo le ignobili stragi nazifasciste come Acerra, Sant’Anna di Stazzema o Marzabotto. Le leggi razziali e la persecuzione degli ebrei. Il coraggio degli operai con i loro scioperi, dal primo a Carbonia nel maggio nel 1942 a quelli poderosi del 1943 e 1944 nel triangolo industriale. E poi la Resistenza.

Il coraggio di migliaia di persone che hanno voluto sfidare con pochi mezzi un nemico più grande, forte e organizzato.

«La gestazione di un’Italia diversa» scrisse Giorgio Bocca in uno dei testi più importanti sull’argomento. E a cui dobbiamo molto di ciò che di più prezioso abbiamo: la Repubblica e una Costituzione avanzata e innovativa.

Oggi, come sempre, non vanno mai dimenticate quelle centinaia di migliaia di soldati Alleati che hanno combattuto e sono morti per la nostra libertà. Oltre trecentomila persone tra morti, feriti e dispersi, per la maggior parte dei casi giovanissimi. Una enormità. Sul nostro suolo patrio rimangono le loro spoglie in tanti cimiteri disseminati lungo il loro cammino. Nei luoghi delle battaglie. Sulle linee Gustav e Gotica. Un’avanzata che travolgeva le dittature e ci riconsegnava la democrazia. Una democrazia in cui dovremmo tutti riconoscerci con orgoglio e consapevolezza.

Il fascismo aveva millantato che l’aratro avrebbe garantito l’avvenire economico della nazione. Che la spada sarebbe stata l’arma della modernità. Però, come ha scritto R. J. B. Bosworth, «lungi dall’offrire un posto al sole, il fascismo gli inflisse (agli italiani ndr) la seconda guerra mondiale, con un bilancio atroce, tanto appariscente, quanto abietto».

Rimasero, per nostra fortuna, «terre non sommerse» abitate da uomini che ebbero la forza di conservare la propria umanità. E fummo liberi.

Buon 25 aprile.

Di Raffaele Tedesco

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