I mali del fast fashion

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Per fast fashion si intende un metodo di produzione di abiti di scarsa qualità, venduti a prezzi molto bassi, lanciando nuove collezioni continuamente e in tempi brevissimi.

Rivendere abbigliamento a basso costo, significa produrlo a basso costo, e produrre a basso costo significa non dare importanza a tantissimi aspetti della produzione. Una produzione inarrestabile, quanto i danni che produce all’ambiente. E non solo. Basti pensare all’infinito sfruttamento del lavoro che genera un’industria tessile di questo tipo per reggere questa velocità e quantità di produzione a questi prezzi.

Stiamo ovviamente parlando delle grandi catene che si trovano ormai in ogni città e in qualsiasi centro commerciale. Marche come Zara, Bershka, Shein, le più scelte dai giovani per i prezzi.

Già in passato l’industria della moda era una delle più inquinanti verso le risorse idriche, ma la situazione si è aggravata per la coltivazione intensiva di cotone creatasi per il fast-fashion.

Questa ha gravato enormemente sui bacini idrici dei paesi in via di sviluppo, traducendosi in rischi di siccità perenne, disboscamenti e vari problemi per la biodiversità e la qualità del suolo.

Basti pensare che ci vogliono più di 2.700 litri di acqua per produrre una sola maglietta. Quanto normalmente beviamo in due anni.

E ancora, si calcola che l’industria del fast fashion sia responsabile del 10% delle emissioni globali di CO2, più del totale di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell’UE in un anno hanno generato circa 654 kg di emissioni di CO2 per persona.

Come se non bastassero i danni ambientali già riportati, dobbiamo aggiungere che vengono prodotti più di 92mila tonnellate annue di rifiuti tessili.

Ma come dicevamo, il problema non è solo l’inquinamento, ma l’incontrollabile sfruttamento della mano d’opera. Il lavoratore è il più svantaggiato in questo scenario non solo per il basso salario ma anche e soprattutto per le condizioni lavorative.

Riportiamo l’esempio di ciò che è accaduto il 24 aprile 2013, in Bangladesh: in questa data è crollato il Rana Plaza, un grandissimo edificio di otto piani che ospitava appartamenti, negozi e tra le attività anche diversi laboratori tessili che lavoravano per alcune tra le più note catene del fast fashion (H&M, Benetton).

Prima dell’accaduto, erano state segnalate crepe nell’edificio che potevano portare a un crollo e, dopo questo avviso, tutte le attività sono state temporaneamente chiuse.

Tutte, ma non le fabbriche tessili.

I proprietari hanno ordinato ai lavoratori di tornare il giorno successivo, giorno in cui l’edificio è crollato.

Questo crollo ha comportato 1129 vittime e 2515 feriti.

Questo è un esempio rappresentativo di un sistema consolidato di schiavitù lavorativa nell’industria tessile che si stima coinvolga più di 40 milioni di persone. E circa il 20 percento sono bambini di paesi in via di sviluppo.

In paesi come l’India, l’elenco delle violazioni dei diritti del lavoro e dei diritti umani delle aziende del fast fashion è lunghissimo: salari bassissimi, turni di 16 – 20 ore al giorno. Rischi e problemi di salute, legati alle condizioni di lavoro. Cure mediche inesistenti anche in caso di incidenti sul lavoro, sempre a carico delle lavoratrici. Abusi verbali, fisici e sessuali subiti dalle giovani lavoratrici (compresi casi di vero e proprio sfruttamento sessuale). Particolarmente vulnerabili sono infatti le ragazze che vivono all’interno degli ostelli delle fabbriche.

Il sistema di reclutamento e il trattamento, a cui questi lavoratori sono sottoposti, rappresentano indubbiamente forme moderne di schiavitù, traffico di esseri umani e lavoro forzato.

La responsabilità che abbiamo in quanto consumatori, ma soprattutto in quanto esseri umani, è quella di assicurarci che i nostri soldi finiscano nelle tasche di chi condivide i nostri valori. Lo sfruttamento delle persone e l’inquinamento del pianeta non rientrano tra i nostri e saremo sempre a fianco di tutti quei lavoratori sfruttati e delle aziende che invece rispettano i lavoratori e l’ambiente, ma non riescono a reggere il passo con queste multinazionali.

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