Giornata della memoria

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27.01.2023

Primo Levi era internato ad Auschwitz quel 27 gennaio del 1945, quando “la prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso mezzogiorno”. Come ha raccontato nel suo La tregua, avvistò i primi soldati sovietici insieme al suo compagno di sventura Charles, mentre stavano “trasportando alla fossa comune il corpo di Somogyi”. I due si trovarono di fronte “quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo”.

Quei soldati erano l’avanguardia della Prima armata sovietica del fronte ucraino, che arrivò in forze di lì a poche ore, trovandosi di fronte circa 7000 anime vestite di stracci, ridotte a pelle e ossa. Le uniche rimaste, dopo che le truppe naziste avevano iniziato ad evacuare il campo già alla metà di gennaio, costringendo circa 60.000 persone a delle vere e proprie “marce della morte”, in cui nessuno doveva neanche cadere per sbaglio in mezzo alla neve. Pena la morte, che toccò a ben 15.000 persone.

I sovietici, davanti ai loro occhi, videro spalancarsi le porte dell’inferno: della più grande macchina di sterminio che l’umanità abbia conosciuto. Voluta e pianificata nei minimi dettagli, per arrivare alla soluzione finale, all’uccisione di quello che era considerato il diverso per eccellenza: l’ebreo, che ha sofferto prima l’antigiudaismo religioso e poi, come scrisse Hanna Arendt in Le origini del totalitarismo “l’antisemitismo (che) a differenza dell’odio antiebraico, storicamente di importanza subordinata, è un fenomeno degli ultimi secoli”.

L’antisemitismo è strisciante; ha contaminato (e continua ancor oggi ad essere un problema non risolto) il campo politico, sociale ed anche scientifico. Un pregiudizio che se con il nazismo ha avuto le conseguenze più atroci, non può essere sottaciuto che i tedeschi hanno trovato in giro per tutta l’Europa solerti collaboratori: la Guardia Hilinka in Slovacchia, la Guardia di Ferro in Romania, gli Hustascia in Croazia, le Croci frecciate in Ungheria, solo per fare qualche esempio di una lista lunga e diffusa su tutto il Vecchio continente.

Quel 27 gennaio sotto gli occhi del mondo si disvelò non solo un fatto di incredibile crudeltà, ma anche “il lungo viaggio della malvagità umana”, perché non si arriva ad uccidere 6 milioni di persone se non si è costruito prima il castello di menzogne che alimenta verso di esse l’odio e il rancore. Una sorte toccata non solo agli ebrei, ma ad altre persone considerate “sub-umane”. E parliamo degli zingari, degli handicappati, degli slavi e degli omosessuali. Tutto in nome di una delirante superiorità di alcuni esseri umani rispetto ad altri, attraverso una forma di violenza legalizzata.

Non a caso, quindi, è stata scelta la data di oggi come “Giornata della Memoria”: ricorrenza internazionale che si celebra ogni anno, per ricordare le vittime dell’Olocausto; del male assoluto, di cui furono responsabili la Germania nazista e tutti i suoi alleati, tra cui l’Italia fascista.

In questa memoria dobbiamo riconoscerci tutti, perché il passato è da considerarsi parte fondamentale della nostra identità. E ciò sia quando esso ci parla di gesta eroiche, sia quando ci ha insegnato “la lezione spaventosa, indicibile e inimmaginabile della banalità del male”.

Il ponte tra un “allora” e un “adesso” deve essere sempre aperto. Le sue strutture consolidate; perché, affinché vi sia memoria è necessario che ognuno di noi possa risalire ai ricordi – personali e collettivi – attraverso un movimento continuo. Una continuità, secondo Maurice Halbwachs, “che non ha nulla di artificiale, poiché non conserva del passato ciò che ne è ancora vivo, o capace di vivere nella coscienza del gruppo”. Tutto in una linea continua di sviluppo, che nel caso della Giornata della Memoria, significa ribellarsi sempre ad ogni forma di razzismo e intolleranza. Significa far diventare quei fatti tremendi un episodio “marcatore”, che dovrebbero segnare per sempre un passaggio da un punto ad un altro del cammino della storia dell’umanità, affinché certe tragedie non si ripetano mai più. Tenerla viva, questa memoria, è e deve essere l’impegno di tutti, soprattutto di quel mondo libero e democratico che non si è mai macchiato di questi crimini contro l’umanità, di cui i principali responsabili sono sempre stati i paesi totalitari.

George Orwell in un breve saggio dal titolo Fascismo e democrazia, pubblicato nel febbraio del 1941 quando la guerra e la persecuzioni nazifasciste erano cominciate, rivolgendosi a coloro che denigravano la democrazia, scrisse: ”Chiunque cerchi di indebolire la fede degli inglesi nella democrazia ed erodere quel codice morale che deriva loro dai secoli protestanti e dalla Rivoluzione francese, non sta preparando il potere per sé. Ma per Hitler. È un processo che abbiamo visto ripetersi così spesso in Europa che non comprenderne la natura non è perdonabile”. La democrazia “è qualcosa di estremamente prezioso che deve essere preservato ed esteso e che, soprattutto, non deve essere insultato”, perché quell’insulto è l’anticamera di immani tragedie.

La UIL ha portato tanti giovani a visitare il campo di concentramento di  Auschwitz. Perché è alle nuove generazioni che è affidato il compito di tenere viva la memoria, affinché il mondo non ripiombi nelle tenebre.

Sotto trovate il disegno di Gaia Noboa De Jesus una, una ragazza di Officina Civile e una bravissima illustratrice che ha voluto rappresentare con la sua arte questa giornata.

 

Raffaele Tedesco

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