Giacomo Matteotti e la memoria oltre in ricordo
10.06.2024
Sono passati cento anni da quando quel 10 giugno del 1924, i fascisti su ordine di Mussolini uccisero il socialista riformista Giacomo Matteotti. Ed è giusto tributare l’omaggio che merita a chi ha lottato per la libertà di tutti, contro la tirannia di un infame dittatore. Ma, dopo un secolo da quel turpe assassinio, non è sufficiente solo un ricordo, ma c’è la necessità di creare una memoria, non incisa solo in intitolazioni di strade o piazze. Tornare a Matteotti, interiorizzarlo in un comune sentire in grado di indicare una direzione collettiva dell’agire quotidiano, significa anche riscoprirne e valorizzarne i tratti di attualità e unicità.
L’intransigente lotta contro il fascismo
Sicuramente, Matteotti fu tra i primi a individuare con precisione i caratteri pericolosi del fascismo, sia sul paino interno che internazionale, anche a dispetto di non pochi democratici che guardavano all’ascesa del movimento di Mussolini con “curiosità”. Nella sua inchiesta, pubblicata nel febbraio del 1924 e intitolata “Un anno di dominazione fascista”, attraverso un elenco di fatti freddo e preciso denunciò sia il fallimento che la brutalità del regime, senza possibilità di appello. Cosa che fece ancora in quello che è passato alla storia come il più importante e coraggioso discorso tenutosi in Parlamento, in quel 30 maggio del 1924, quando denunciò le violenze fasciste, capaci di piegare e coartare la libera volontà degli italiani nelle appena passate elezioni politiche. Per questo, Mussolini giudicò la misura colma, e uccise quello che era il suo peggior nemico.
Ma Matteotti non può essere raccontato solo in quei dieci giorni che vanno da quel 30 maggio – giorno del discorso – a 10 giugno, quando fu rapito e ucciso. Se così facessimo daremmo ragione al povero Gobetti, secondo il quale “Matteotti non fu mai popolare”. Senza contare le turpi parole di Gramsci che lo definì il “pellegrino del nulla”.
L’impegno per i braccianti nel Polesine
È difficile non considerare popolare un uomo che nel suo Polesine fu sempre eletto nelle innumerevoli sfide elettorali a cui aveva partecipato, venendo premiato ogni volta da una valanga di preferenze personali. Senza contare che fu segretario del Partito socialista unitario, un movimento politico riformista che ancora nelle elezioni politiche del 1924 risultò il primo tra i partiti della sinistra.
Ed è ancora più difficile appiccicare addosso l’epiteto ingiurioso di “pellegrino del nulla” a chi aveva dedicato tutta la sua vita agli ultimi della sua terra: quel Polesine povero, dove i braccianti morivano di fame e pellagra.
Nel suo essere socialista riformista, il pensiero e l’azione di Matteotti risentono dell’influsso e dell’esempio di personaggi fondamentali del movimento operaio italiano, come Camillo Prampolini e Nicola Badaloni. I quali non teorizzavano la lotta di classe ma si rifacevano a principi morali come la libertà, l’uguaglianza, la fraternità e la giustizia. Le condizioni materiali e morali di braccianti e operai dovevano essere elevate attraverso un’opera paziente di educazione, in cui l’istruzione aveva un ruolo cruciale.
Il suo riformismo gradualista e anti-demagogico
Matteotti era un gradualista, voleva lottare non contro, ma dentro lo Stato. Intransigente, certo, ma evitando posture violente, senza “titillare demagogicamente l’anima popolare”, al fine di blandirne i peggiori umori.
Al “puritanesimo infecondo” dei massimalisti ha sempre opposto l’azione concreta nell’amministrazione locale, operando nel sindacato, nelle leghe e edificando cooperative. Tutto ciò grazie a una solidissima preparazione giuridico-economica. Guidò, tra l’altro, le lotte bracciantile nel Polesine per il controllo del collocamento, per l’imponibile di manodopera, firmando un nuovo e vantaggioso patto agricolo per i braccianti nella provincia di Rovigo.
Contro ogni forzatura deterministica, Matteotti sapeva che “le cose non avvengono da sé ma ad opera degli uomini”. Uomini, che dovevano essere preparati a una pratica quotidiana in cui saper leggere un bilancio o argomentare una rivendicazione, poteva rivelarsi fondamentale per il miglioramento delle loro condizioni di vita. Ciò a fronte di un mondo politico all’epoca distratto e funestato da filosofie spiritualistiche e idealistiche, non di rado sfociate nell’irrazionalismo.
Matteotti, dal canto suo, non si sentì mai vincolato da modelli teorici astratti e mostrò di essere dotato di ottimo senno quando si pronunciò contro la Rivoluzione bolscevica, bollandola come una “dittatura di pochi sul proletariato”. O quando, sfidando le ire dei massimalisti, e poco prima della marcia su Roma, ritenne di sostenere l’ipotesi di un governo “antifascista” assieme ai popolari di Sturzo e ai liberali di Amendola. Purtroppo, non andò in porto.
Il Psu di Matteotti fece del rifiuto del “metodo della dittatura e della violenza”, al “fine di garantire il metodo democratico e un’atmosfera di libertà politica”, uno dei suoi tratti caratteristici.
La sua straordinaria attualità
Il pensiero e l’azione di Matteotti non sono solo esempio di coraggio, rispetto alla lotta da lui intrapresa contro il fascismo e pagata con la vita. Ma hanno una caratteristica ben precisa: dopo un secolo nulla di quel pensiero e di quell’azione è stato espulso dalla storia.
Sta qui la sua fondamentale importanza per la nostra memoria collettiva.
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