Genocidio: il crimine dei crimini

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09.12.2022

Nel 2015, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha deciso di istituire la Giornata Internazionale per la commemorazione e la dignità delle vittime di genocidio e per la prevenzione di questo crimine tremendo, che si celebra il 9 dicembre. Il motivo è quello di aumentare la consapevolezza sulla Convenzione sul genocidio e di commemorare e onorare le sue vittime. Il 9 dicembre, inoltre, è anche l’anniversario dell’adozione della Convenzione sulla Prevenzione e Condanna del Crimine di Genocidio del 1948, entrata poi in vigore il 12 gennaio del 1951.

Il “crimine dei crimini” trova nell’articolo 2 della Convenzione la sua definizione giuridica in riferimento a “qualsiasi dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, tra cui uccidere membri del gruppo, causare gravi lesioni mentali o fisiche ai membri del gruppo, sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica totale o parziale, imporre misure volte ad impedire le nascite all’interno del gruppo, trasferire forzatamente i bambini da un gruppo ad un altro”. Per volere dell’URSS e dei paesi del blocco sovietico, tra i “gruppi” di cui all’art. 2, non figurarono più quelli  perseguitati per motivi “politici”. Il voto di una potenza planetaria impediva così la possibilità di inserire tra l’elenco dei reati perseguibili quelli che di fatto essa stessa aveva commesso con particolare efferatezza.

È stata la tragedia della Shoah, il prototipo del Male assoluto, a costituire l’idealtipo del genocidio, dapprima sul versante giuridico e poi su quelli delle scienze sociali, della storiografia e soprattutto del senso comune. Ambiti tra loro non di rado intrecciati.

La definizione del concetto di genocidio è opera del giurista e linguista di origini polacca Raphael Lemkin e risale al 1943. Il lemma in cui si fondono la parola greca «γένος» (nazione/etnia) e quella latina «caedēs» (uccisione/strage), indica la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico. Ed è nella sua opera intitolata Axis Rule in Occupied Europe: Laws of Occupation, Analysis of Government, Proposals for Redress che il concetto viene esplicato; e sarà proprio per questa sua attività di ricerca che lo stesso Lemkin parteciperà personalmente alla stesura del primo progetto di Convenzione contro il genocidio.

Ma il concetto di distruzione intenzionale di un gruppo umano non rappresenta una novità del XX secolo. Infatti, lo troviamo sul finire del XVIII, usato da Francois-Noel Babeuf nel suo testo intitolato Du Systeme de Depopulation, in cui si narra delle misure adottate nella Vandea tra il 1793 e il 1794 dal Comitato rivoluzionario di Nantes. In questa regione francese, Jean-Bapiste Carrier, all’epoca procuratore del Tribunale di Aurillac, aveva organizzato una repressione sistematica e organizzata tanto da rientrare secondo Babeuf «nella storia della ferocia inaudita e degli orrori nazionicidi».

Sarà comunque Lemkin a sottolineare l’urgenza di nuove misure da adottare da parte della comunità internazionale al fine di tutelare gruppi e minoranze etnico-religiose, in continuità con norme già presenti ma non certo sufficienti, come le Conferenze dell’Aia del 1899 e del 1907 e la Convenzione di Ginevra dove non si fa alcuna menzione del genocidio, e il Trattato di Versailles; strumenti che difettavano sotto il profilo della effettività del potere, risultando più dei “testimoni simbolici”.

Già durante lo svolgersi della Seconda guerra mondiale, si avevano notizie dei crimini attuati dai nazisti nei confronti di ebrei e zingari, e tra gli Alleati quindi maturava l’idea che si dovesse repentinamente intervenire per punire azioni così efferate e non tollerabili neanche in periodo bellico. È, infatti, già dell’ottobre del 1943 l’istituzione della Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra, un organo creato per definire un codice di diritto internazionale basato sul carattere universale del crimine di guerra e per istituire un tribunale che giudicasse tali efferatezze, e con il compito, al contempo, di formulare i capi di accusa nei confronti del regime nazista, fornendo agli imputati le garanzie necessarie per un equo processo.

Nasce così il “diritto di Norimberga” e viene istituito il tribunale militare che giudicherà i gerarchi nazisti. Nel suo statuto, tra l’altro, viene definito il concetto di crimine contro l’umanità (l’assassinio, lo sterminio, lo schiavismo, la deportazione e qualsiasi altro atto disumano commesso contro le popolazioni civili, prima o durante la guerra, o le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi quando questi atti o persecuzioni [….] siano stati commessi in seguito a un qualsiasi crimine che rientri nella competenza del tribunale, o a questo crimine collegati) e stabilito il diritto di ingerenza che spezzava il principio assoluto della superiorità giuridica dello Stato.

Tappe importanti prima della stipula della Convenzione contro il genocidio – crimine che trovò la sua prima applicazione giuridica proprio nel processo di Norimberga – sono la  Conferenza per la unificazione del diritto penale del 1947 dove si ribadì che era impellente “per rispondere ai desideri imperativi della coscienza universale, assicurare la repressione dell’omicidio e di tutti gli atti che tendono alla soppressione della vita umana, commessi contro individui o gruppi umani per ragioni di razza, nazionalità, religione o opinioni” e la XXXVII Conferenza Interparlamentare dove si sollecitò la collettività degli Stati ad adottare un Codice penale internazionale e istituire un Tribunale Penale Internazionale.

Solo gli Stati possono far parte della Convenzione sulla Prevenzione e Condanna del Crimine di Genocidio e il genocidio può essere giudicato da un tribunale dello stesso Paese dove il crimine è stato commesso o da un tribunale penale internazionale che può averne competenza rispetto alle parti contraenti che ne hanno riconosciuto la giurisdizione. Nella storia più recente abbiamo avuto casi di tribunali ad hoc, come il Tribunale internazionale per i massacri Tutsi in Ruanda e quello per i crimini compiuti nell’ex Jugoslavia.

Nel corso della storia governi ed autorità hanno commesso crimini efferati per motivi etnici, religiosi, di nazionalità, solo per capriccio o senza alcuna ragione. Ammonterebbero, secondo un calcolo per difetto, a 133 milioni le vittime di questi atti tremendi. Si stima che lo Stato che abbia commesso i crimini peggiori sia stata l’URSS, dove perirono probabilmente circa 62 milioni di persone. Il Partito comunista cinese da Mao in poi ha sterminato 35 milioni di cinesi a cui vanno aggiunti i 10 milioni uccisi dai nazionalisti. In Corea del Nord le vittime sono state 2 milioni; in Cambogia i Khemer rossi ne uccisero 2 milioni. Un milione e mezzo morirono in Polonia tra il 1945 e il ’48 e altrettanti in Pakistan (1958-1987) e Messico (1900-1920). Ma l’elenco è tristemente lungo.

Tra tutte queste tragedie sicuramente vanno annoverati nel genocidio – che col tempo perde progressivamente il carattere di crimine solo “giuridico”, acquistando soprattutto quello di condanna “morale” – i fatti relativi allo sterminio degli ebrei, la strage dei Tutsi in Ruanda e le vittime della ex Jugoslavia. Altri casi che possono rientrare in questo crimine sono l’eccidio degli armeni, dei greci e altri cristiani da parte dei Turchi tra il 1909 e il 1923, come quello dei Khemer rossi in Cambogia. Ma se si adotta una definizione più ampia di genocidio non si può non ricordare la strage degli ucraini da parte di Stalin tra il 1932 e il 1933 o dei tibetani massacrati dalla Cina.

Una cosa però è certa: il democidio, tra cui rientra anche il genocidio, è una prerogativa dei regimi totalitari o autoritari. Dove manca la libertà il rischio di questi crimini contro l’umanità è altissimo; non a caso i governi che non si sono macchiati di tale efferatezza sono le democrazie moderne.

È per questo che diventa fondamentale la memoria: una lente dove il passaggio della narrazione consapevole di ciò che è stato è il solo modo per non ripeterlo nelle sue tragedie.

Raffaele Tedesco

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