Viva la Repubblica italiana!

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02.06.2023

Quello della forma istituzionale che l’Italia avrebbe dovuto avere dopo la fine della Seconda guerra mondiale, fu un problema dibattuto a conflitto ancora non terminato.

I principali partiti che presero parte alla Resistenza erano per la Repubblica. Non solo perché credevano che fosse migliore come forma di Stato, ma anche per il forte discredito e le evidenti responsabilità che la casa Savoia aveva sia rispetto all’ascesa e al consolidamento del fascismo e vista la sua incapacità di gestire – non assumendosene le responsabilità – i drammi di un Paese allo sbando dopo l’8 settembre. Con un esercito allo sfascio e i nazisti che oltrepassavano le Alpi, Vittorio Emanuele III preferì scappare a Brindisi insieme al capo del governo, Badoglio. Lo Stato, impersonato dalla monarchia sabauda, nei fatti non c’era più.

Un secondo Risorgimento

Quindi, per i principali esponenti del CLN, la guerra di liberazione non doveva essere solo combattuta per respingere l’invasore, ma rappresentava il preludio a un profondo rinnovamento politico e sociale del Paese, dopo il ventennio dittatoriale fascista. Una sorta di “secondo Risorgimento”, in cui un posto avrebbero dovuto trovare anche le masse, che dal “primo Risorgimento” erano rimaste escluse.

Ma lo schieramento politico di unità nazionale contro nazisti e fascisti aveva confini più ampi di quelli delimitati dall’antifascismo della prima ora. Nei fatti l’antifascismo doveva, obtorto collo, saldarsi in un fronte unico con quello stato monarchico che si trovava nel Sud d’Italia, e dovette quindi accantonare quella pregiudiziale antimonarchica, che trovava la sua ragione nella evidente collusione della Corona con il fascismo.

La questione istituzionale venne congelata. Nel 1944, dopo estenuanti trattative presso il Governo, si stabilì che sarebbe stata risolta chiamando alla scelta il popolo italiano, anziché dall’Assemblea costituente, come era stato paventato in precedenza. E per giunta, ci si trovava in un momento storico in cui le forze moderate – presenti nel Paese soprattutto a Roma e al Sud – erano in forte ripresa.

Il 2 giugno 1946

Il 2 giugno del 1946, tutti gli italiani furono chiamati alle urne. Per la prima volta in una consultazione nazionale (si era già svolta tra marzo e aprile una tornata elettorale di carattere amministrativo), nel nostro Paese ebbero diritto di voto anche le donne.

I cittadini avevano in mano due schede: con una scelsero i rappresentanti dell’Assemblea costituente, che avrà il compito di scrivere la nostra Costituzione. Con l’altra dovevano scegliere la forma di Stato: ovvero, se l’Italia sarebbe dovuta restare una monarchia o invece diventare una Repubblica.

A urne chiuse, fu evidente che il fronte monarchico stava recuperando terreno. Infatti, la repubblica ottenne 12.718.641 di voti contro i 10.718.502 della monarchia. Per giunta con un voto referendario che fotograferà chiaramente un’Italia divisa in due: in quasi tutte le province a nord di Roma vincerà la Repubblica; da Roma in giù si imporrà la scelta monarchica.

Il 13 giugno, il Consiglio dei ministri trasferì le funzioni accessorie di capo provvisorio dello Stato al Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Umberto II, Luogotenente del Regno e successore in linea dinastica del padre Vittorio Emanuele III, decise di recarsi in esilio in Portogallo.

Il 18 giugno la Corte di Cassazione rende noti i risultati definitivi del referendum: viene ufficialmente proclamata la Repubblica.

O Repubblica o il caos

L’idea repubblicana aveva già delle radici importanti nel nostro Paese. Senza andare troppo indietro nel tempo, basterebbe ricordare Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo, Felice Cavallotti, solo per citare alcune personalità politiche imprescindibili. Senza dimenticare le generose ma sfortunate imprese della Repubblica napoletana del 1799 e di quella romana del 1849 (un primo tentativo di instaurare una repubblica a Roma risale al 1798), capeggiata nella capitale dai triunviri Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi, Carlo Armellini e alla cui difesa si impegnò anche Giuseppe Garibaldi.

Ma nel 1946 il vero protagonista della vittoria della repubblica fu sicuramente il socialista Pietro Nenni. “O repubblica o il caos” era il suo slogan più famoso. Per qualcuno una minaccia insurrezionalista, ma nei fatti dietro quelle parole c’era anche un disegno politico, sintesi di un ragionamento lucido. Un caos che sarebbe arrivato davvero – secondo Nenni – se si fosse continuato a tergiversare.

Le sinistre avrebbero preferito lasciare la scelta istituzionale all’Assemblea costituente, nel timore di una deriva plebiscitaria a favore della monarchia. Nenni, invece, in maniera risoluta, nel febbraio del ’46 riuscì a far passare la decisione di far votare gli italiani contestualmente per il referendum e per l’Assemblea costituente. Sapeva che il referendum sarebbe potuto diventare un plebiscito manipolabile dal fronte monarchico, ma aveva anche ben chiara l’idea che con la contestuale chiamata alle urne poteva “anche divenire un’altra cosa”.

Ammoniva inoltre che l’eccessivo attendismo avrebbe potuto determinare “un sussulto della piazza contro le nostre lentezze e diatribe”. Senza escludere “l’intervento degli Alleati, e forse un intervento non soltanto politico”. E a un contesto confuso e instabile non avrebbero certo potuto provvedere i Savoia.

A Nenni, quindi, interessava mettere il più possibile l’Italia su un binario di autonomia decisionale e infiammò il Paese intero con i suoi comizi travolgenti a favore della repubblica. Una passione questa, che ha origine in una vecchia militanza repubblicana: “Io non scopro la repubblica oggi – scrisse a Mario Zagari nel 1943 – ma ne ho fatto la passione della mia vita, e una passione non platonica”.

A risultato referendario acquisito, Ignazio Silone, allora direttore dell’Avanti! scrisse: “Grazie Nenni”.

Un grazie che vale ancora oggi.

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