Donne con disabilità e occupazione
17.03.2023
Quando sei donna, sai che dovrai affrontare molte difficoltà per realizzare la tua vita e i tuoi sogni. Ma se sei una donna “diversa” le tue montagne da scalare saranno ancora più alte.
Le chiamiamo “doppie discriminazioni”: le vivono le donne migranti, le donne meridionali, le donne di etnia diversa (dalla nostra), le donne con orientamento sessuale omosessuale o la cui identità di genere è diversa dall’identità sessuale attribuita alla nascita. Le vivono le donne con disabilità.
Alcune discriminazioni sono emerse con forza, come la crescente difficoltà di diventare madre perfino in quel meridione che era radice delle famiglie numerose. Altre stanno conquistando più visibilità e con essa, si spera, una più diffusa accoglienza: pensiamo ad una diversa sessualità, che sconvolge meno in una società in cui tutto è definito più “liquido”.
Altre discriminazioni, invece, continuano a rimanere sommerse: le donne con disabilità continuano ad essere poco viste, ascoltate, sostenute, integrate nel quotidiano e nel mondo del lavoro.
Essere una donna con disabilità significa dover affrontare una vita con un’autonomia già condizionata da limitazioni fisiche o cognitive, ma queste limitazioni individuali non possono e non devono impedire la possibilità di lavorare e di sentirsi inserite per così dire “a pieno titolo” in una società in cui se non lavori ti considerano quantomeno come scansafatiche!
Non ci rendiamo conto di quanto sia necessario ed opportuno affrontare argomenti nel modo corretto sia nella forma che nella sostanza: a partire dalle definizioni, i cambiamenti vanno messi a fuoco e metabolizzati per limitare il rischio di sbagliare o di offendere senza volerlo – “si può dire buongiorno a TUTTI e basta?”, “Posso usare il termine sord* o bisogna usare non udente?”. Per fare un esempio, nel nostro Paese c’è la legge 68 del 1999, “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, che già nel titolo dimostra gli anni trascorsi. Oggi si preferisce parlare di “persone con disabilità” perché una persona non può e non deve essere identificata esclusivamente con una peculiarità che ne condiziona la vita.
Questa legge, la n. 68/99, prevede l’obbligo per datori di lavoro pubblici e privati di assumere persone con riduzione della capacità lavorativa (certificata per almeno il 46%), da un numero minimo di 1 dipendente (se si occupano da 15 a 35 dipendenti) fino al 7% dell’organico (se si occupano oltre 50 dipendenti). Ma questa misura non basta: secondo i dati ISTAT al 2021, il tasso di occupazione delle donne con disabilità gravi (9,1%) o non gravi (23,3%) è al 32,4%, ben più basso del già basso tasso di occupazione femminile in generale, che nel nostro Paese supera di poco il 51%. È significativo, inoltre, che il dato relativo al tasso di occupazione di uomini con le stesse limitazioni (gravi al 16,1%, non gravi al 36%) è pari al 52,1%: come spesso accade, ogni aspetto della vita di una donna dimostra quanta fatica costi il cammino verso la parità, perfino quando le condizioni invalidanti sono uguali!
Come si legge nel dossier ISTAT “Disabilità” del 2019 su dati 2016-17, in merito alla disoccupazione della componente femminile con disabilità gravi in cerca di occupazione, le donne “pagano probabilmente il costo del maggiore scoraggiamento e si rifugiano prevalentemente nella condizione di non attività”. Ciò ci ha fatto pensare al come si reagisce ad un evento, devastante per la propria vita, come un infortunio invalidante sul lavoro, che non va sottovalutato.
In un articolo del 2014 l’INAIL affermava che “dopo un infortunio il 42% delle donne soffre di ansia, angoscia e incubi. Inoltre, il 57% ha perso i rapporti con amic* e collegh*, perché il 31,5% delle donne che ha mantenuto lo stesso posto di lavoro ha però cambiato ruolo o attività, mentre un 23,5% ha affermato di aver perso il lavoro dopo l’infortunio perché spinta a licenziarsi”.
Mancano ancora banche dati a rilevazione costante e differenziate per genere su disabilità derivanti da infortuni sul lavoro. Ma sappiamo che gli infortuni non mortali sul lavoro – che al 2017 era stato rilevato per 232.957 donne – nel dicembre 2022, secondo INAIL, hanno riguardato donne per il 41,06% (286.522 donne rispetto a 411.251 uomini).
Un altro dato interessante è che gli infortuni non mortali in itinere hanno riguardato circa 43.000 donne a fronte di circa 46.000 uomini, una misura che evidenza l’incidenza dei compiti di cura e dell’uso di mezzi più elevata da parte delle donne.
A margine, è forse il caso di fare riferimento ad un altro dato INAIL, che tra i primi 10 mesi del 2021 e del 2022 rileva un calo delle morti sul lavoro legato alle denunce relative alla componente maschile (i cui casi mortali denunciati sono passati da 922 a 806), mentre sono aumentate le denunce inerenti morti sul lavoro della componente femminile, salita da 95 a 103 casi. Ci auguriamo che i dati finali non crescano ancora!
Numeri come questi sollecitano l’attenzione da porre alla sicurezza sul lavoro, come la UIL afferma con forza da tempo. Le morti e gli infortuni più o meno invalidanti che avvengono per mancanza di rispetto delle norme in materia di sicurezza sul lavoro non sono più giustificabili né accettabili.
La disabilità resta ancora un argomento “scomodo”, che imbarazza o viene sottovalutato dai normodotati, mentre costringe chi ha disabilità ad un percorso ad ostacoli molto duro. Per questo serve un’attenzione specifica, continua, per arrivare ad una piena integrazione che tenga conto delle limitazioni individuali. L’autonomia che deriva da una occupazione sicura e di qualità è un obiettivo che la UIL pone al vertice delle priorità da perseguire per tutte le donne, a maggior ragione se con disabilità: perché la rimozione delle barriere deve riguardare anche le barriere mentali!
Dipartimento pari opportunità UIL
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