Intervista alla responsabile di un Centro antiviolenza

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25.11.2022

Il 25 novembre è una giornata a tinte nere e rosse. Ricordiamo le donne vittime di violenze che sono sempre troppe, ma c’è un conto di cui nessuno parla: quelle che si sono salvate! Il fenomeno della violenza contro le donne, secondo Ivana Veronese, va affrontato con un approccio sistemico: bisogna pensare all’oggi, prima di tutto finanziando e supportando i centri antiviolenza. Inoltre, servono efficaci misure di sostegno alle donne che trovano la forza per uscire da situazioni violente e si ritrovano senza mezzi propri, e contemporaneamente lavorare sul domani, per prevenire abusi, soprusi e violenze.

Abbiamo parlato con Anna, di Be free società cooperativa sociale, direttrice di un centro antiviolenza in una bella intervista che ci fa capire più da vicino come funzionano i centri e cosa servirebbe per migliorare l’ordinamento giuridico e tutelare di più le donne.

Anna, quante sono le donne presenti nella struttura di cui ti occupi?

Adesso sono presenti 8 nuclei familiari, donne con i loro figli. La maggior parte delle donne che ospitiamo hanno figli.

Nel Centro Antiviolenza ci sono quasi 400 nuovi casi in aggiunta a quelli che seguiamo degli anni precedenti. Alcuni possono essere più veloci e in questo modo possiamo ospitare più nuclei familiari. Per altri casi ci vuole più tempo, dipende dalle situazioni.

Se dovessimo attendere la fine di ogni iter processuale non uscirebbe nessuno per diversi anni, ma le persone ospitate hanno bisogno di riprendersi la loro vita, trovare un lavoro, prendere una casa.

Alcune donne, poi, sono collocate qui in protezione ed è il Tribunale che decide quando possono uscire.

La maggior parte esce dalle case rifugio quando hanno, finalmente, ritrovato la loro libertà.

Da quanto tempo ti occupi dei Centri antiviolenza?

Sono 25 anni che faccio questo lavoro. Ogni donna, ogni bambino, ogni storia che ho incontrato in questi anni è diversa. Quando ci sono di mezzo i figli, poi, il rapporto con l’uomo è ovviamente più complesso e anche scegliere di andarsene è un processo più complicato.

I figli sono la motivazione per restare ed è molto radicato il concetto che una famiglia debba restare unita. L’allontanamento dal padre per la donna sembra sempre una sorta di violenza nei confronti del figlio o della figlia, privandoli del genitore. Anche se sul concetto di questo padre ci sarebbe molto da dire.

Cerchiamo di far ragionare le donne sul modello relazionale che stanno passando ai figli e alle figlie. L’idea della famiglia unita è importante se è una famiglia idonea per la bambina o il bambino, ma se la famiglia stessa passa dei modelli che non sono giusti o consoni per i figli, forse è meglio andarsene.

Cerchiamo di far passare alle donne che sono anche madri il concetto di non introiettare modelli sbagliati ai loro figli.

Quanto è importante denunciare?

La denuncia è importante anche perché poi puoi fare delle richieste di protezione. Dopo la consapevolezza di cosa stai subendo il passo successivo è la cognizione di cosa significhi fare una denuncia.  Devi essere abbastanza rafforzata per portarla a termine perché già scrivere la denuncia è doloroso, in quanto devi ripercorrere cose che vorresti dimenticare e l’iter non è così veloce. A volte hai a che fare con i Tribunali per la denuncia anche per parecchio tempo. È importante che le donne siano consapevoli di cosa significa, di cosa le aspetta e nel momento in cui decidono di denunciare siano realmente convinte.

Cosa accade dopo la denuncia?

Davanti avranno una fase di indagini. È ovvio che la violenza domestica ha una caratteristica: è “domestica” e le mura non hanno orecchi, occhi e quando ce l’hanno si guardano bene dal farli vedere. Quindi è sempre la tua parola contro la sua. Quando, poi, si incardina un procedimento penale quello che conterà è la credibilità quindi dovrai essere molto forte per far capire che quello che racconti è successo veramente e non è semplice. Gli iter processuali, inoltre, durano tanto. Veramente troppo.

Ci sono molte cose che andrebbero aggiustate.

Cosa avviene dopo che c’è stata la condanna e l’uomo ha scontato la pena?

Alla fine dell’iter processuale penale, se condannati, non vanno in carcere. Solo nel caso in cui sono accertati altri reati.

Abbiamo proposto due progetti per lavorare con gli uomini maltrattanti, ma in carcere non li abbiamo trovati! Dal nostro ordinamento giuridico non è previsto il carcere, solo nel caso in cui hai ucciso la donna.

Cosa servirebbe invece?

La certezza di una pena non sarebbe male! Anche processi più brevi che danno alla donna più un senso di realtà. Sono fuggite da un pericolo reale per loro stesse e per i loro figli, hanno affrontato una denuncia, un processo che dura secoli, forse avere tempi più stretti e Tribunali che si occupano di questioni familiari può aiutare.

Molti uomini dicono: “chiama i carabinieri, tanto non mi fanno niente”. Purtroppo, è vero!

Quanto è importante investire nella prevenzione, lavorando anche su una cultura diversa della donna, della coppia e della famiglia stessa?

Noi andiamo in tante scuole a livello gratuito e volontario perché non ci sono tanti progetti ad hoc contro la violenza, ma il tempo è sempre poco. Cerchi in un breve intervento di smuovere delle cose ma è fine a sé stesso. Ci vorrebbe un intervento a tutti i livelli scolastici, ma ripetuto nel tempo, costante, e che lavori sui modelli relazionali. Oggi agli studenti ho fatto fare un gioco per simulare momenti delle coppie. Ecco, vedendo le dinamiche riportate e pensando che queste generazioni faranno parte delle future coppie e famiglie ti rimane un po’ l’amaro in bocca.

Le grandi battaglie che abbiamo fatto, a volte, sono dimenticate.

Qual è il consiglio che daresti ad una donna che ora sta vivendo una situazione familiare di violenza?

Il messaggio che passa normalmente è la storia eclatante che si conclude con la morte della donna. Forse sarebbe importante far sapere, invece, quante decine di migliaia di donne ogni anno si salvano, perché ci si può salvare!

Intanto bisogna uscire dal silenzio parlandone con la propria famiglia, con un’amica e poi rivolgendosi ai centri antiviolenza in cui c’è personale formato per aiutarti, sostenerti e per accompagnarti ad uscire da quella situazione.

È importante che le donne sappiano che esistono questi posti e che si può fare. Mi dicono “fai un lavoro così triste”. Io rispondo sempre che non è vero, faccio un lavoro bellissimo perché le donne e i bambini rinascono, ricominciano e si salvano.

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