Celebrare la pace mentre si combatte la guerra

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21.09.2022

È così che quest’anno il mondo occidentale festeggia il 21 settembre, la giornata internazionale della pace. Istituita nel 1981 dall’ONU, nacque con il proposito di invitare tutte le nazioni e i popoli a cessare ogni ostilità, promuovendo la fine dei conflitti attraverso l’educazione, la consapevolezza pubblica e la cooperazione con le Nazioni Unite. Ma con l’avanzata dei tank russi, lo spettro della guerra bussa di nuovo alle porte d’Europa. La vecchia cortina di ferro sembra tornata in piedi qualche chilometro più in là ed è più incandescente che mai.

In questa narrazione, però, ci sono degli equivoci di fondo. È fuorviate pensare che un lungo periodo di pace si sia interrotto. La guerra, purtroppo, non è mai finita. I bombardamenti in Ucraina non sono altro che il ventitreesimo conflitto ad oggi in atto.  Se calcoliamo anche le ostilità croniche e le escalation violente i numeri schizzano sopra i 300 conflitti nel mondo con 235 milioni di persone coinvolte.

Ad esempio, in Yemen si combatte dal 2015. Dopo la Primavera araba del 2011 che ha costretto il presidente Ali Abdullah Saleh a passare il testimone al vice Abdrabbuh Mansour Hadi, la situazione è precipitata. Le forze militari fedeli all’ex capo di Stato sono entrate in conflitto con il suo successore. Ma non solo. Quando nel 2014 il movimento sciita Houthi ha preso il controllo del Nord dello Yemen, il conflitto si è intensificato con la reazione militare dell’Arabia Saudita, e di altri otto stati, a difesa del governo di Hadi. Si tratta della più grave crisi umanitaria al mondo.  Oltre 17 milioni di persone soffrono la fame e quattro milioni sono state obbligate a lasciare le proprie case per sfuggire ai bombardamenti. Solo nel 2017 sono morti più 14 mila civili. In Yemen manca cibo, acqua, assistenza sanitaria e si fatica a vedere la luce in fondo al tunnel.

Anche la Siria si trova nello stesso drammatico limbo e da ben 11 anni. Sempre con lo scoppio della Primavera Araba, infatti, il governo di Bashar al Assad ha puntato a smantellare il gruppo ribelle del “Libero Esercito Siriano”, colpendo i civili. Le vittime sono state più di 500 mila mentre 13 milioni di persone sono state costrette a fuggire o sono ancora sfollate e incastrate dentro i confini siriani.  Ad oggi, il 60% della popolazione non ha di che mangiare per l’aumento dei prezzi alimentari e più di 14 milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria. Quasi la metà di queste sono bambini che nella maggior parte dei casi non vanno a scuola e sono malnutriti.

Un quadro agghiacciante che purtroppo non è limitato al Medio Oriente. In Etiopia dal 2020 il governo nazionale è in conflitto con il Fronte popolare di liberazione del Tigray, per il controllo dell’omonima regione. L’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), nel 2021, ha dichiarato che dall’inizio della guerra i tigrini sfollati erano circa un milione e duecentomila con circa 1,7 milioni di bambini privati dell’istruzione. In Mozambico, invece, dal 2017 nella provincia di Cabo Delgado, violenti attacchi di gruppi jihadisti hanno provocato migliaia morti, feriti e sfollati.

E ancora si soffre la fame e la guerra anche in Sudan, nella Repubblica Democratica del Congo e nel Mali.

Il mondo è puntellato di decine di focolai militari che rendono l’impegno per la pace e la sicurezza una priorità fondamentale. In questo delicato contesto, la voce sindacale può avere un ruolo decisivo. Infatti, sono lo stato di bisogno, la povertà e il disagio sociale che spesso innescano e fomentano potenziali conflitti. Perciò la cooperazione per la giustizia sociale, a livello globale, è il primo passo per garantire a tutti e tutte un futuro di pace.

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