Bruno Buozzi: la nostra storia

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04.06.2023

La storiografia non ha prestato sempre una grande – quanto dovuta – attenzione nei confronti dell’esperienza del sindacalismo riformista di inizio Novecento. Un “lungo oblio”, non di rado accompagnato anche da “sostanziale discredito”. E questo nonostante il ruolo propulsivo che la CGdL delle origini diede allo sviluppo socioeconomico del nostro Paese, nonché all’elevazione delle classi subalterne.

Il movimento sindacale italiano, dalle sue origini fino all’avvento del fascismo, ebbe una radice fortemente riformista. Fu animato da organizzatori come Argentina Altobelli, Rinaldo Rigola, Angiolo Cabrini, Ernesto Verzi. Ideologicamente, il sindacato delle origini si rivedeva, nella sua maggioranza, nelle idee del socialismo riformista e gradualista di Filippo Turati: in quel “socialismo delle cose” come applicazione del “programma minimo”, in grado di migliorare le condizioni materiali dei lavoratori, senza le pericolose fughe in avanti del massimalismo e rifiutando ogni tentazione allo spontaneismo, tipica dei seguaci di Sorel.

Una lunga marcia all’interno delle istituzioni

L’ideologia marxista era certo l’orizzonte da cui i dirigenti sindacali traevano i criteri per interpretare la realtà, ma le idee di Marx non erano mai concepite in senso totalizzante. Anzi, del marxismo non condividevano l’ipotesi dell’inevitabile immiserimento delle classi lavoratrici. A questa nefasta profezia, opponevano la fiducia nell’industrialismo, perché la fabbrica era il luogo dove si poteva creare sia la ricchezza per gli operai, che quel progresso di cui la classe lavoratrice diventava inevitabilmente protagonista, riuscendo nel tempo a migliorare la sua condizione attraverso le riforme e la forza della sua organizzazione.

Un’avanzata che doveva essere gradualista: “una lunga marcia all’interno delle istituzioni [di un Sindacato] che fa lo stato democratico”, come scrisse Walter Tobagi.  Che diventa un vero vettore di modernità e autocoscienza della classe lavoratrice.

Bruno Buozzi fa parte a pieno titolo di questa storia.

La storia di Bruno Buozzi

Nato a Pontelagoscuro, in provincia di Ferrara il 31 gennaio del 1881, Buozzi rimane orfano di padre ad appena dieci anni, tanto che per aiutare la famiglia, finita la terza elementare, è costretto ad andare a lavorare in una bottega artigiana. Un’esperienza che lo segnò molto per via delle condizioni di sfruttamento del lavoro che subiva.

A quindici anni diventa operaio meccanico, e si trasferisce a Milano per trovare miglior fortuna, lavorando prima alla Marelli e poi alla Bianchi.

Si iscrive al PSI a 24 anni. Contemporaneamente fa il suo ingresso nella FIOM, abbracciando fin da subito il riformismo di stampo turatiano. La FIOM, è bene ricordarlo, fu uno dei soggetti associativi più attivi e importanti per la fondazione della CGdL nel 1906.

Buozzi divenne segretario generale della Federazione Italiana Operai Metallurgici nel 1909, quando l’organizzazione attraversava un profondo periodo di crisi. Gli iscritti erano scesi a 7000 (che corrispondevano al 20% dei metallurgici organizzati). Complici di questa crisi furono sicuramente i dilanianti conflitti tra sindacalisti riformisti e rivoluzionari.

Il nuovo Segretario generale apportò modifiche all’apparato organizzativo, razionalizzandolo. Ma soprattutto improntò il suo lavoro sindacale ai canoni del riformismo: ovvero, abbandonando ogni velleitarismo massimalista e puntando sempre su obbiettivi concreti, gli unici che potevano realmente e concretamente avvantaggiare i lavoratori.

La lotta degli operai metallurgici

Nell’estate del 1920, in un’Italia ancora stremata dalle conseguenze della Grande guerra e dilaniata da forti tensioni sociali, gli operai metallurgici scesero in lotta chiedendo migliori condizioni di lavoro, orari più contenuti e aumenti salariali. Buozzi dovette affrontare una prova durissima: l’occupazione delle fabbriche. E lo fece in un contesto in cui era difficilissimo tenere la vertenza in un ambito solo sindacale.

A spingere verso una politicizzazione della protesta – dalle conseguenze molto pericolose – era il gruppo di Antonio Gramsci di “Ordine Nuovo”, che vedeva nei neonati consigli di fabbrica delle potenziali cellule per innescare la rivoluzione.

Buozzi riuscì a dare alla protesta un classico sbocco vertenziale: ovvero, la stipula di un accordo, in cui gli industriali accoglievano molte delle rivendicazioni del sindacato.

Nelle difficili vicende del movimento socialista italiano, Buozzi seguì il riformista Turati nel Partito socialista unitario, il cui segretario era Giacomo Matteotti e che aveva l’appoggio della CGdL.

L’opposizione al fascismo

La sua opposizione al fascismo fu sempre ferma e totale. Subì anche delle aggressioni fisiche da parte delle camicie nere. Inoltre, quando nel 1927 i capi della CGdL decidono di sciogliere la confederazione dopo continui cedimenti verso il fascismo, Buozzi si opporrà fieramente a questa decisione, rifondando l’organizzazione nell’esilio parigino.

Il suo esilio Oltralpe durò ben 15 anni, mentre altri due furono di confino politico a Montefalco, ma rifiutando sempre – sia nel 1926 che nel 1941, quando rientrò sotto sorveglianza in Italia – ogni tipo di collaborazione che il regime fascista gli proponeva, visto il suo prestigio.

Sul primo numero de L’Operaio Italiano – organo della CGdL in esilio – stese una sorta di programma di azione in cui erano ribaditi soprattutto la lotta al fascismo e la rinascita del sindacato libero dopo la dittatura.

Con la caduta del fascismo, Buozzi fu liberato, impegnandosi per la ricostituzione del sindacato. Il nuovo governo Badoglio lo nominò commissario per i sindacati per l’industria. Gli altri due commissari erano il cattolico Achille Grandi per i sindacati dell’agricoltura e il comunista Giuseppe Di Vittorio, per quelli dei braccianti.

Decise di rimanere in una Roma occupata dai nazisti dopo l’8 settembre, per continuare la sua attività    di riorganizzazione del sindacato. Il 13 aprile del 1944 fu arrestato e portato nel carcere di via Tasso dalle S.S. tedesche.

Durante l’avanzata delle truppe alleate, i tedeschi si dettero alla fuga. Buozzi fu messo in un camion, che si dirigeva verso nord. Purtroppo, quel convoglio si fermò in località La Storta, dove Buozzi fu ucciso insieme ad altri compagni di detenzione all’alba del 4 di giugno.

Il successivo 9 giugno, fu firmato il Patto di Roma, con il quale rinacque il sindacato libero dopo il ventennio fascista. Questo risultato fu raggiunto anche grazie all’impegno e al coraggio di Bruno Buozzi.

La UIL non lo ha mai dimenticato.

Foto: Francobollo celebrativo – di proprietà dell’Istituto Studi Sindacali UIL – della firma del Patto di Roma del 9 giugno 1944 con l’effige di Bruno Buozzi, Giuseppe Di Vittorio e Achille Grandi. Come noto, Bruno Buozzi non poté in realtà firmare il documento di rinascita del libero sindacato in Italia, di cui era stato il principale artefice, perché fu assassinato dai nazisti in fuga da Roma qualche giorno prima, il 3 giugno. In suo onore la firma del Patto fu retrodatata al giorno della scomparsa del sindacalista socialista. La sua presenza in questa effige è un riconoscimento del suo ruolo imprescindibile.

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