Brexit tre anni dopo: i britannici si interrogano sulle conseguenze
31.01.2023
Il 31 gennaio 2023 ricorre il terzo anniversario dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. La ricorrenza è l’occasione per i britannici di interrogarsi sulle conseguenze e sui danni che la Brexit ha causato al paese, colpito duramente dalla pandemia di Covid-19 e scosso negli ultimi mesi dalle crisi interconnesse generate dalla guerra russa in Ucraina, quali quella economica, energetica e inflazionistica (10,5% a dicembre 2022).
Sei anni e mezzo dopo il referendum sulla Brexit del 2016 – quando il leave si impose con il 52%, trascorso un triennio dall’uscita formale dall’UE e a due anni dalla firma dell’accordo commerciale con Bruxelles, è tempo per la società d’oltremanica di stilare i primi bilanci e fare le necessarie analisi.
Sebbene i Conservatori, ancora al potere con il Premier Rishi Sunak a seguito delle dimissioni di Liz Truss (in carica per soli 45 giorni) e della caduta (rovinosa) di Boris Johnson, abbiano sempre cercato di eludere il dibattito sugli effetti causati dalla Brexit, è ormai evidente alla maggioranza dei cittadini e degli opinionisti britannici che la discussione ormai non riguarda più gli eventuali danni, ma stabilirne la reale entità.
Quella che in principio doveva essere un’ambiziosa opportunità per l’economia, attraverso una forte vocazione al commercio internazionale, e una ripresa del controllo delle finanze, dei confini e delle leggi nazionali, non ha prodotto i risultati promessi né tanto meno ha sostenuto la propagandata strategia “Global Britain”.
Infatti, la delusione dei sudditi di Sua Maestà è crescente nei sondaggi di opinione pubblica, e le mancate promesse della separazione si sono infrante contro una dura realtà, tanto che alcuni analisti e media hanno coniato il neologismo Bregret: crasi tra le parole Brexit e regret, che in inglese significa pentimento.
Secondo un sondaggio della società di ricerche YouGov, solo il 32% dei cittadini pensa che la Brexit sia stata positiva, mentre il 56 per cento sostiene sia stato un errore. Tra i brexiter la percentuale di pentiti è cresciuta negli ultimi mesi passando dal 4 al 19. In questa percezione sicuramente non hanno contribuito le immagini simbolo nel corso del 2021 e del 2022 che mostravano gli scaffali dei supermercati vuoti e le lunghe file ai distributori di benzina, oltre alla carenza di manodopera che ha colpito in particolare alcuni settori (trasporti, alimentare, ecc).
A questi dati si aggiungono le analisi di economisti e ricercatori, concordi sugli impatti negativi della Brexit. In un recente studio, la London school of economics ha stimato che i prezzi dei prodotti alimentari è aumentato in media del 3% all’anno, mentre gli scambi commerciali tra il Regno Unito e l’UE sono diminuiti del 15 per cento, per una perdita di 43 miliardi di sterline nel 2021. E le previsioni nel medio-lungo periodo non sono più rosee: escludendo la Russia, l’OCSE prevede per il paese nei prossimi due anni la crescita più bassa del G20, accompagnata da una contrazione del PIL di circa il 4% e di un calo degli investimenti del 13 per cento.
Queste analisi e previsioni sono anche parte delle preoccupazioni del sindacato britannico TUC, che in diversi studi ha sottolineato gli effetti combinati della lenta ripresa dal Covid-19, della Brexit e della crisi economica in corso. Alcuni impatti si sono manifestati da subito, come le difficoltà alle dogane e alle frontiere, mentre altri potrebbero protrarsi ed avere conseguenze di lungo corso (divergenza negli standard del lavoro, di prodotti o servizi; normative).
Il TUC prevede che il mercato del lavoro e il tessuto economico del Regno Unito subiranno una profonda ristrutturazione nei prossimi anni: tra i settori più esposti alla Brexit rientrano l’industria automobilistica, i mezzi di trasporto, il turismo, il comparto tessile e chimico, i servizi legati alla finanza e alle comunicazioni. Inoltre, la Brexit ha esacerbato l’impatto del Covid-19 sulle carenze strutturali e le disuguaglianze che gravano il paese, tra regioni, aree urbane e rurali, centro e periferie, di genere, generazionali e sociali.
L’Accordo di commercio e cooperazione tra Unione europea e Regno Unito, siglato il 24 dicembre 2020 ed entrato in vigore il primo maggio 2021, ha evitato lo scenario peggiore del “no deal”, ma come ha sottolineato a più riprese la Confederazione europea dei sindacati (CES) pone nuove sfide che rischiano di penalizzare i lavoratori britannici, e di conseguenza anche quelli del resto d’Europa. Tra le preoccupazioni maggiori date da un approccio tradizionale centrato soprattutto sugli aspetti commerciali dell’accordo, vi è il rischio di regressione nel campo dei diritti sociali, del lavoro e della mobilità dei lavoratori, oltre al peggioramento degli standard di lavoro rispetto alla legislazione dell’UE.
Relativamente a questi aspetti, anche il TUC ha espresso le proprie preoccupazioni in materia di diritti del lavoro, individuando i più vulnerabili: ferie retribuite, tutele per salute e sicurezza, tutele per i lavoratori somministrati, indennità di disoccupazione e congedo di maternità. A questi si aggiunge il diritto allo sciopero, minacciato nel settore dei servizi pubblici da una legge restrittiva che l’attuale governo intende promuovere nelle prossime settimane, senza la necessaria consultazione con il sindacato britannico.
La CES, insieme alla richiesta di una clausola di non regressione, ha sostenuto la necessità di rafforzare gli strumenti di applicazione, controllo e rimedio in caso di divergenze contenuti nell’accordo, così da dissuadere il Regno Unito (ma anche l’UE) dal deregolamentare il proprio mercato del lavoro nell’ottica di ottenere un vantaggio competitivo al ribasso, generando fenomeni di dumping. Questi meccanismi sanzionatori fanno parte del principio chiamato in inglese “Level Playing Field”.
Al fine di mitigare alcune delle carenze dell’accordo, la CES ha chiesto di adottare una serie di misure di sostegno, quali ad esempio un maggiore coinvolgimento dei lavoratori attraverso un forum specifico sostenuto dalla Commissione europea e di consolidare la rappresentanza sindacale e i poteri del gruppo consultivo interno (DAG – Domestic Advisory Group), che ha il compito di fornire pareri e raccomandazioni sull’attuazione dell’accordo o sue parti.
In conclusione, a fronte di una recente apertura verso l’UE da parte del Primo Ministro Sunak (avversata dalle frange più intransigenti dei Tories), il fallimento della Brexit, oltre che dall’analisi della realtà e dei dati, è stato decretato dalle stesse istituzioni britanniche (ad es. la Banca d’Inghilterra). Critiche contro una Brexit dura sono arrivate anche dal sindaco di Londra, Sadiq Khan, duro sia con il governo sia con il leader Labour Keir Starmer. Il post Brexit richiede al Regno Unito un cambio di prospettiva e una maggiore concretezza, insieme alla riacquisita consapevolezza che il rapporto con l’Europa rimarrà centrale per il benessere dello stato insulare.
Dipartimento Internazionale UIL
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