Bambini soldato: l’infanzia rubata in nome della guerra

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12.02.2023

“Il giorno della mia prima missione avevo tanta paura. Persino una lucertola mi spaventava. Lacrime mi scendevano dagli occhi, ma non piangevo. In mano stringevo il fucile. Eravamo un piccolo gruppo di soldati: un soldato più grande, Josiah, Musa, Sheku e io, Ishamael. Il tenente era il nostro capo e guidava il gruppo. Camminavamo dentro la foresta. I nostri nemici erano i ribelli e noi avevamo l’ordine di ucciderli”.

Ishmael Beah è originario della Sierra Leone. Oggi ha 43 anni e vive negli Stati Uniti. Ma quando ne aveva solo 12 anni, Ishmael viene costretto a partecipare alla guerra civile in Sierra Leone, finché non è soccorso dall’UNICEF. Divenne, suo malgrado, un bambino-soldato: un piccolo essere umano che scende negli inferi peggiori dell’umanità. Invece di giocare insieme ai suoi coetanei o andare a scuola a costruire la sua vita, gli viene chiesto di uccidere altri uomini: di toglierla, la vita.

Volendo usare una fredda definizione, sono considerati bambini-soldato le persone con età inferiore ai 18 anni, che fanno parte, a qualsiasi titolo, di un esercito o gruppo armato, regolare o irregolare.

Sono 18 i Paesi nei quali, dal 2016 ad oggi, è stato documentato l’impiego di bambini-soldato in conflitti armati: Camerun, Afghanistan, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Colombia, Repubblica Centrafricana, India, Iraq, Mali, Myanmar, Nigeria, Libia, Filippine, Pakistan, Sudan, Sud Sudan, Siria e Yemen. Spesso siamo di fronte a guerre mai dichiarate o non concluse in maniera ufficiale. Conflitti non di rado etnici, in cui il campo di battaglia è in ogni dove e le regole dei conflitti convenzionali non valgono alcunché.

Nel mondo, secondo delle stime, i bambini-soldato sarebbero oltre 250.000. Quelli a rischio di reclutamento almeno 337 milioni: un numero tre volte superiore a trent’anni addietro.

In un rapporto ONU, si segnalano circa 8600 casi di reclutamento al mondo nel 2020. La maggioranza dei bambini viene prelevata da gruppi armati non statali. Ciò avviene attraverso rapimenti, minacce, costrizioni o manipolazioni psicologiche. Ma non mancano casi di bambini che si “arruolano” spinti dalla povertà e dal bisogno di sopravvivere, perché non hanno più i genitori e il loro villaggio è stato distrutto. E poi, i bambini sono facilmente indottrinabili, non disertano, non chiedono stipendi. I più fragili sono quelli che vivono per strada, smarriti e impotenti. Spesso testimoni oculari, fin dalla tenera età, delle peggiori violenze, di massacri di massa, stupri e distruzioni di ogni genere.

Il compito affidato a questi piccoli sventurati non è sempre e solo quello di combattere. Spesso sono addetti a fare i cuochi, i facchini, i messaggeri. Di questo esercito della vergogna fanno parte anche bambine, spesso costrette a schiavitù sessuale.

Come riportato sopra, la lista dei paesi dove insiste questo dramma è lunga. L’epicentro, però, risulta l’Africa, dove avvengono la maggior parte delle violazioni. Secondo alcune stime, nella Repubblica Democratica del Congo sarebbero stati arruolati circa 8000 fanciulli, di cui il 40% bambine. Nel nord est della Nigeria si stimano 3500 “arruolamenti”. In Sudan si parla addirittura di centomila bambini sui fronti di guerra. In Liberia di ventimila. Numeri terrificanti, e su cui la pandemia da covd-19 ha inciso ancor più negativamente. Molti di questi stati, infatti, non sono riusciti a dare sufficienti risposte in rapporto all’emergenza. Le scuole sono state chiuse, infragilendo di più la già precaria situazione di molti bambini.

Ma il fenomeno dei bambini-soldato è presente anche in Medio Oriente, Sud America e Asia. In Myanmar si stima che i fanciulli in guerra siano più di 75.000.

Negli ultimi anni la Comunità internazionale ha preso più coscienza di questo fenomeno, in special modo dopo il 1989. Risale proprio all’89 la Convenzione sui diritti del fanciullo. Poi è stata la volta, nel 1991, dei principi di Parigi sui minorenni associati a eserciti o gruppi armati, in seguito implementati dai principi di Vancouver (2017), dove si ribadiva la necessità di dare priorità e rendere operativa la prevenzione del reclutamento e dell’uso di bambini-soldato. Di seguito, abbiamo avuto il Protocollo opzionale alla Convenzione sui diritti all’infanzia, firmato fino ad ora da 170 Stati, secondo cui non possono partecipare a scontri a fuoco ragazzi di età inferiore a 18 anni.  Inoltre, lo Statuto della Corte penale internazionale, approvato nel 1998, identifica come crimine di guerra l’arruolamento di bambini sotto i 15 anni di età.

Si capisce bene quanto sia difficile far rispettare i principi enunciati, visto che chi dovrebbe recepirli sono di solito stati non democratici, poveri e dilaniati da odii etnico/religiosi.

Si tenta, comunque, attraverso l’impegno sia delle istituzioni che di operatori, di salvare quanti più bambini possibile, tentando di reinserirli poi nella società. Nel 2019 grazie al lavoro dell’UNICEF sono stati oltre 13000 i minori sottratti alla violenza delle armi. Numeri di speranza.

Nel Preambolo allo Statuto delle Nazioni Unite del 1945 c’è l’impegno solenne a “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”. E i bambini sono il nostro futuro.

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