Agatha Christie e la cancel culture

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25.06.2023

Anche i romanzi di Agatha Christie, la famosissima regina del genere giallo, verranno revisionati per essere adattati alla cosiddetta “sensibilità moderna”. A passarli in rassegna, al fine di eliminare termini giudicati sconvenienti – come “nero”, “ebreo” o “zingaro” – sarà un gruppo di “sensitive readers”, incaricati dall’editore HarperCollins.

I racconti del famoso investigatore privato Hercule Poirot saranno rivisitati da degli editor con la missione di identificare passaggi che contengano pregiudizi, stereotipi o rappresentazioni che possano risultare offensivi o dispregiativi nei confronti di alcune comunità minoritarie, etniche, sessuali e culturali.

Sensitivity readers

Qualcuno pensa che i sensitivity readers possano svolgere un ruolo importante nell’editoria, tanto da renderla più inclusiva e lungimirante. Altri credono che tutto ciò si ricolleghi all’annoso discorso sulla cancel culture, che volendo utilizzare la definizione della enciclopedia Treccani sarebbe un “atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualche cosa di offensivo o politicamente scorretto e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento”.

Quindi un movimento che si presenterebbe come fattore di necessità sociale, perché la società avrebbe bisogno di nuovi linguaggi e quindi nuovi modelli, al fine di superare stereotipi radicati nel sentire comune.

Allora, addio al bacio dato nella favola a Biancaneve, perché non consensuale. In soffitta, se non frantumate, le statue di Cristoforo Colombo presenti negli USA, perché simbolo del colonialismo. Accantonato il pensiero e l’arte del mondo classico greco e romano, perché fondato su basi razziste e schiaviste.

L’impressione fuorviante sull’assenza di diversità del mondo greco e romano

Nel luglio 2020 il Museum of Classical Archaeology di Cambridge riceveva una lettera contro le sue riproduzioni di opere classiche greche e romane fatte in gesso, con la motivazione che danno “l’impressione fuorviante sull’assenza di diversità del mondo greco e romano”. E ancora non sappiamo cosa accadrà a Friedrich Engels che nel 1847, durante l’occupazione coloniale francese in Algeria, espresse sul giornale cartista The Northern Star il suo giubilo per la cattura da parte dell’esercito occupante del capo della resistenza algerina.

Meglio un’Algeria governata dal “borghese moderno, con la sua civiltà, la sua industria”, rispetto “al signore feudale o al predone e alla società cui questi appartengono”, scrisse.

Missione civilizzatrice

Una volta messo all’indice il Manifesto del Partito comunista e la situazione della classe operaia in Inghilterra, si potrebbe andare a rivedere anche la posizione di uno dei padri del liberalismo: quell’Alexis de Tocqueville, il quale era non solo favorevole all’occupazione francese in Algeria, ma avvalorava la sua tesi sulla scorta della necessità di una “missione civilizzatrice” in quella terra. E attento deve stare anche Winston Churchill, forse il principale oppositore al nazismo in Europa, perché aveva delle opinioni non proprio politically correct verso gli indiani.

Ci rendiamo ben conto delle complessità del discorso, soprattutto se andiamo all’origine di questo fenomeno, quando nel 2005 in South Carolina ci si oppose alla presenza della bandiera secessionista che sventolava sulla cupola del parlamento locale.

Qui, vista la storia degli Stati Uniti, forse quel vessillo rimaneva un simbolo divisivo e di oppressione per tantissimi afroamericani. Come non sarebbe tollerabile in Italia issare una statua a Mussolini e discutibilissimo che gli ucraini erigano statue al nazionalista criminale Stepan Bandera.

Il problema, però, è domandarsi fino a che punto spingersi. Se oltre alla bandiera sudista deve essere rimossa anche la statua di Thomas Jefferson, perché ebbe oltre 600 schiavi nella sua piantagione di Monticello, vicino a Charlottesville.

Per carità, la statua è stata rimossa, non distrutta, e spostata verso la New York Historical Society; però è evidente che questo potrebbe essere un processo senza fine ed in cui stanno giocando un ruolo importante anche i social media, che per loro natura non sono particolarmente “adatti” a valorizzare le complessità del discorso.

Ma, all’opposto, tendono alla polarizzazione degli schieramenti e delle posizioni, creando non di rado bolle di hate speech e relative gogne. Non a caso in una lettera sottoscritta da circa 150 intellettuali sul sito della rivista americana Harper’s magazine, apparsa nel luglio del 2020, i firmatari sostenevano “che la nuova sensibilità collettiva su quali parole, comportamenti e idee siano offensive e più o meno esplicitamente razziste, sessiste e in generale discriminatorie, abbia avuto molti effetti positivi, ma anche altri che non fanno bene alla salute del dibattito pubblico. Essenzialmente un conformismo delle idee che porta le persone che di lavoro scrivono, dirigono film o fanno arte ad adeguarsi a questo presunto pensiero collettivo”.

La regolamentazione sull’uso delle parole

Nadine Strossen, una delle firmatarie della lettera, ha affermato che “la regolamentazione sull’uso delle parole può avere le migliori intenzioni, ma è sempre pericolosa”. Parafrasando il vecchio adagio che “la strada delle buone intenzioni è lastricata di cadaveri”.

Nel villaggio globale, questa sarà una discussione e un confronto che si protrarranno per anni. Speriamo senza anatemi o presunzioni di purezza.

Intanto, nell’attesa di tempi meno burrascosi, un bell’esempio di non curanza della cultura della cancellazione ce lo offre Rhiannon Giddens, musicista, cantante e multistrumentista afro-americana della Carolina del Nord. La Giddens si cimenta ad altissimo livello con la musica popolare statunitense riproponendo canzoni, danze, canti di lavoro e blues della tradizione nera: da Geeshie Wiley a Elizabeth Cotten, a Ma Rainey. E, tra l’altro, divertendosi con le melodie dei minstrel show della seconda metà dell’Ottocento: gli spettacoli in cui musicisti bianchi si dipingevano la faccia di nero e facevano il verso alla musica afroamericana. Oppure partecipando al festival su Mark Twain, uno dei bersagli dei cancellatori; o ancora suonando Dixie, l’inno sudista con il suo gruppo. Che con amabile ironia si chiama Carolina Chocolate Drops: le gocce di cioccolata della Carolina.

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