ESPERIENZE PROFESSIONALI IN PAESI IN VIA DI SVILUPPO: una storia personale   

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20.10.2022

La mia passione verso i “paesi in via di sviluppo” e l’Africa in particolare la si può considerare “storica” in quanto già all’epoca delle scuole medie coltivavo l’idea che mi sarebbe piaciuto “da grande” fare il medico anche per andare in qualche paese del terzo mondo, e ciò non solo nell’ottica di venire in aiuto alla gente del posto ma anche, ammettiamolo, al fine di un più egoistico sentimento, un po’ narcisistico per la verità, di affermazione personale.

In effetti, conseguito il diploma di maturità classica, non ebbi dubbi a iscrivermi alla facoltà di Medicina e Chirurgia, presso l’Università La Sapienza all’epoca unica in Roma. Conseguita la laurea, ebbi molti dubbi dopo, quando si doveva scegliere la specializzazione, anche al fine di ottemperare all’obbiettivo preposto. Scelsi Chirurgia Generale e per questo lavorai in una clinica universitaria.

Ma ciò che mi mancava all’epoca era una valida esperienza come primo operatore allorquando fui chiamato dal mio direttore e mi venne proposto di recarmi, in qualità di responsabile, per un periodo di sei mesi presso il reparto di chirurgia dell’ospedale di Kamsar, Guinea.

Non mi parve vero almeno per due motivi, andare a lavorare in un paese africano (come era sempre stato il mio sogno) e poi maturami sotto un profilo professionale quale direttore di un vero reparto, diciamo tutto mio. Avevo all’epoca 33 anni e i tempi erano maturi per una esperienza del genere.

Kamsar era allora una cittadina sorta da poco, quale centro per lo smistamento della bauxite. Ovviamente ciò che mi riguardava era l’ospedale che all’epoca era moderno e basilarmente ben attrezzato, cosa rara per l’Africa, con due sale operatorie, una sala gessi e un reparto di circa 30 letti, senza distinzione tra posti per adulti e bambini.

Furono sei mesi di attività intensissima, considerando che ero responsabile di tutta la chirurgia, compresa l’ortopedia e traumatologia, terreno che teoricamente esulava dalle mie competenze e così anche nel campo della chirurgia pediatrica. Questo è un aspetto particolare dell’attività della mia branca nei paesi in via di sviluppo: fare di necessità virtù, cimentandosi se necessario in campi specialistici personalmente fino ad allora inesplorati, magari con l’aiuto di qualche libro.

Particolarmente impegnativi le operazioni su bimbi anche di giovanissima età. Tra questi molte splenectomie su milze veramente enormi (la malaria come è noto è diffusissima in questi paesi) e casi più rari ma sempre impegnativi, come il megacolon o l’imperforazione anale. Ma questo ormai rientrava nella routine. Un’altra cosa che ho notato: gli interventi andavano (quasi) tutti bene! Un po’ di fortuna ci vuole pure e poi gli africani, sia detto per inciso, sono una etnia particolarmente forte.

Ovviamente l’assistenza nei più piccoli era particolarmente impegnativa, ma devo dire che il personale locale ha sempre agito con senso di responsabilità ovviando quando possibile con la buona volontà alla mancanza di attrezzature. Anestesisti rappresentati da infermieri specializzati, ma comunque all’altezza del compito sia in quello ma anche negli altri ospedali che ho frequentato in paesi in via di sviluppo.

Ritornando alla mia attività abituale, ebbi una seconda chiamata “africana” quanto avevo 35 anni e questa volta in Somalia a Mogadiscio, ove il mio Direttore aveva organizzato la Facoltà di Medicina e Chirurgia, questa volta per un periodo di tre mesi.

C’è da dire che l’attività in questo caso era essenzialmente didattica (insegnamento di chirurgia d’urgenza e chirurgia toracica) mentre quella chirurgica e in particolare quella in campo pediatrico era solo di supporto all’attività didattica in quanto negli ospedali locali (per la verità piuttosto fatiscenti) erano attive unità mediche e paramediche locali.

Comunque, non sono mancati interventi pediatrici anche impegnativi.

Alcuni anni dopo ebbi occasione di recarmi a Quetta nel Balucistan Pakistano con la Croce Rossa Internazionale per tre mesi. Fui anche in questo caso necessario prendere l’aspettativa nell’ospedale ove lavoravo.

Un lavoro questa volta completamente diverso dai precedenti. Si trattava di esercitare in un ospedale dedicato ai feriti della guerra che si combatteva all’epoca in Afghanistan tra mujahiddin del popolo (allora sostenuti dagli americani) contro l’esercito russo. Molti di questi pazienti, evacuati dal vicino confine tra Afghanistan e Pakistan (tra cui il mitico passo Khyber) giungevano in ospedale con ferite spesso gravissime e mutilanti, nonché quelli provenienti dalla popolazione ma sempre con patologie con la guerra in corso.

Molti di questi di età pediatrica, vittime innocenti di una guerra certo da loro né voluta né cercata. Ma cosa pensare di fronte ad un bambino che aveva perso entrambe le mani e gli occhi a causa di una bomba-giocattolo?

Da notare che casi come questi non erano affatto rari. La brutalità dell’uomo non conosce limiti.

Tanti ricordi, tra cui non posso dimenticare per la sua eccezionalità quello di una donna incinta  al quarto mese e con aborto in atto, provocato da una ferita da arma da fuoco penetrata in addome e ove la pallottola, dopo aver perforato alcune anse, era entrata e poi si era fermata nella cavità uterina, provocando così l’aborto.

Intervento pienamente riuscito con le suture intestinali, estrazione della pallottola e del feto e finale sutura della parete uterina. Un bimbo non nato ma una vita salvata.

All’età di 65 anni, e quindi qualche anno solo prima del pensionamento, una nuova proposta: tornare a Kamsar per una nuova missione di sei mesi. Una occasione straordinaria di tornare a operare nel paese dove avevo iniziato la mia attività operatoria 31 anni prima.

Come cambia il mondo e l’Africa in particolare! Là dove c’era una cittadina circondata dalla savana ove passeggiando incontravi di tutto, dalle gazzelle alle scimmie, c’era oramai una città molto più grande e popolosa, mentre gli animali selvatici erano praticamente spariti. Non così l’attività operatoria.

L’ospedale era molto deteriorato. Servizi al limite della chiusura. Ma l’attività operatoria continuava senza sosta. L’unico presidio ospedaliero in una zona molto vasta era sempre affollatissimo. Tra questi pazienti, giova ricordarlo, una nutrita schiera di bambini spesso in età neonatale. Il mondo era cambiato ma le patologie erano le stesse. Era cambiato il numero, questa volta molti più numeroso, specie in ambito pediatrico.

Successivamente due nuove missioni in Africa questa volta a Bangui capitale della repubblica Centro-africana sotto gli auspici di Emergency che a quell’epoca organizzava le missioni e dove all’epoca era in corso (e tuttora credo prosegue) una sanguinosa guerra civile.

Primo periodo di quattro mesi e secondo periodo di tre mesi.  Anche qui numerosi interventi di chirurgia generale sia in elezione che in urgenza. Patologie ovviamente tipiche della età pediatrica oltre che neonatale, quali l’atresia intestinale, le invaginazioni intestinali, la stenosi pilorica del lattante, il mielo-meningocele, il megacolon, l’imperforazione anale.

Molte di queste patologie normalmente assenti dal bagaglio tecnico del chirurgo generale, in quanto appannaggio di reparti specialistici. Voglio citare anche molti casi di perforazione ileale e di colecistiti acute di origine tifosa (la localizzazione biliare è quella più frequente della salmonella tifosa dopo quella ileale), tanto per ricordarne alcuni. Frequenti le ferite da arma da taglio e da fuoco, non sempre emendabili, come in quelle in ambito cranico. Pallottole vaganti su bambini che spesso giocavano ignari e quindi colti di sorpresa.

Un cenno particolare al comportamento della popolazione proveniente spesso da molto lontano per assistere da presso i propri malati, per lo più familiari degli assistiti, come si è detto spesso se non esclusivamente in giovanissima età. Aspetto questo abituale per i paesi in via di sviluppo. Di regola rispettosi e grati nei confronti del personale medico e paramedico in servizio e delle regole.

Spesso “accampati” nelle vicinanze della struttura e costretti pertanto a cucinarsi su focolai di fortuna o a riposare su giacigli improvvisati anche nell’eventualità di condizioni climatiche avverse. Scarsi servizi igienici. Persone devo dire (nonostante le circostanze) educate anche a dispetto delle difficili condizioni ambientali.

Voglio infine segnalare come fatto rilevante come, al di là dell’impegno tecnico al tavolo operatorio, fosse necessario in molti strutture terapeutiche formulare la diagnosi (eventualmente anche solo di sospetto) con lo scarso se non addirittura nullo ausilio delle indagini strumentali (semplicemente perché assenti) e quindi con tutta l’importanza di un indispensabile esame clinico: ciò riafferma, se mai ce ne fosse bisogno, l’importanza dell’accurato esame obbiettivo, una clamorosa rivincita che andrebbe riacquisita anche dalle nostre parti, tanto in ambito adulto che soprattutto pediatrico.

Prof. Ferdinando Carotenuto, primario chirurgo emerito del S.Giovanni di Roma

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