Abbattere il Muro per riconquistare la libertà
09.11.2022
Per ventotto anni, dal 13 agosto del 1961 al 9 novembre del 1989, il Muro di Berlino non ha tagliato in due solo una città, ma un intero Paese assurgendo a simbolo della divisione del mondo in blocchi contrapposti; emblema di quella guerra fredda che da una parte vedeva schierato l’Occidente fondato sullo stato di diritto, dall’altra il blocco comunista sovietico, retto da un partito che nella sua storia non ha fatto altro che calpestare ogni tipo di libertà, creando un sistema di terrore in cui non c’era spazio né per l’individuo né, tanto meno, per una pluralità di corpi intermedi, come partiti e sindacati liberi.
Il socialismo era inteso dai comunisti come statalizzazione integrale della vita umana, individuale o collettiva che fosse. E che, purtroppo, ha trovato in Occidente una buona parte di intellighenzia di sinistra che si identificò con esso, la quale pensava che la salvezza dei popoli passasse per la distruzione di ogni forma di mercato e dello stato “borghese”.
Il Muro è stato l’ultimo baluardo della guerra fredda. Per anni praticamente invalicabile, se non a rischio della vita. E quando fu preso a picconate, a venire giù non fu solo il calcinaccio con il filo spinato, ma un intero sistema di organizzazione sociale e politica brutale, quanto inefficiente e corrotto, collassato su sé stesso.
La barriera che divise Berlino fu costruita a step successivi dalla DDR, la Repubblica democratica tedesca. Da quel 15 agosto del 1961, in cui furono stesi chilometri di filo spinato, si arrivò alla costruzione in anni successivi di strutture murarie che arrivavano ad una lunghezza di 155 chilometri, con altezza di 3,60 metri. I passaggi stradali vennero ridotti a sette e di quelli ferroviari ne rimase solo uno. Lungo il confine furono abbattute molte abitazioni per far posto al muro, così come si chiusero i ponti e si disboscarono completamente ampie aree per avere il controllo totale della zona. Ai contadini venne concesso di lavorare nei campi vicini al confine solo nelle ore diurne e accompagnati da militari.
Il muro vero e proprio vide quindi la luce nel 1962, ma ebbe rimaneggiamenti nel 1965 e nel 1975. La Berlino est, quella comunista, divenne un grande carcere a cielo aperto, voluto dai dirigenti della SED (il partito comunista della Germania orientale) non solo perché le tensioni tra il blocco occidentale e quello dominato dall’URSS era arrivata a livelli di guardia, ma perché dal 1949 fino al fatidico 13 agosto 1961, due milioni e mezzo di persone (soprattutto giovani) aveva lasciato la parte est della città per riversarsi nella libera Berlino ovest.
Non mancarono tanti tentativi di fuga. Circa cinquemila persone furono coronate da successo, ma perirono purtroppo dalle 192 alle 239 persone.
Uno dei piani di fuga più audaci fu quello a cui parteciparono anche due italiani, allora studenti in Germania: Domenico Sesta e Luigi Spina, i quali, per salvare dei loro coetanei, decisero di scavare un tunnel dalla zona ovest verso quella est, alto e largo circa un metro e a cinque metri di profondità, per una lunghezza di ben 126 metri. Riuscirono nella loro impresa e ventinove persone riacquistarono la libertà.
Quando nel 1985 Mikhail Gorbachev fu nominato segretario generale del PCUS (Partito comunista dell’Unione sovietica), capì che il sistema era allo stremo e iniziò un percorso di riforme legato alla perestrojka (ricostruzione o ristrutturazione) e alla glasnost’ (trasparenza), annunciando anche la fine della dottrina brezneviana della sovranità limitata dei paesi satelliti del Patto di Varsavia, i cui popoli capirono che avrebbero, da ora in poi, potuto esprimersi liberamente senza la paura di essere «normalizzati» dai carrarmati sovietici, così come successo a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968.
Ma la dirigenza comunista di Berlino est non era entusiasta della perestrojka, quanto della glasnost’. Lo stesso Gorbachev quando presenziò nell’ottobre del 1989 la cerimonia per i quarant’anni della DDR, in evidente polemica con il leader della Repubblica democratica tedesca, Erich Honecker, non mancò di dire che “il tempo punisce chi non si accorge del suo passaggio”.
Honecker non aveva alcuna intenzione di seguire l’esempio sovietico e non era stato in grado di capire i cambiamenti in corso testimoniati dal fatto che in Polonia il partito comunista aveva legalizzato Solidarnosc; che in primavera era cambiato il regime in Ungheria e presto sarebbe accaduto anche a Praga. Proprio l’Ungheria dette un primo grande scossone alla cortina di ferro nel giugno del 1989, a pochi mesi dal fatidico 9 novembre. Essa, infatti, aprì le frontiere con l’Austria e 6000 tedeschi dell’est sulle loro Trabant varcarono il confine per rifugiarsi nella Germania dell’Ovest. Quattromila e cinquecento di loro si rifugiarono nell’ambasciata della RFT (Repubblica federale tedesca) a Praga per chiedere asilo politico.
La situazione in DDR era, ormai, insostenibile e si moltiplicavano le manifestazioni di protesta, che prendevano spesso le mosse dalle chiese, perché le uniche riunioni lecite erano quelle religiose.
Honecker fu defenestrato, ma ancora non era ben chiaro cosa sarebbe successo, pur se furono promesse riforme, tra cui quella che prevedeva la libertà di movimento.
In una conferenza stampa a Berlino est del 9 novembre, Günter Schabowski, il ministro della Propaganda della DDR, stava rispondendo alle domande dei giornalisti, assicurando che i tedeschi orientali avevano finito di vivere in una prigione a cielo aperto. Ad un certo punto interviene il giornalista italiano dell’Ansa, Riccardo Ehrman, chiedendo al ministro da quando le nuove normative sarebbero state in vigore. Schabowski rispose:” Da questo momento”. Nei fatti, le nuove regole dovevano entrare in vigore il 10 novembre. Ma ormai il dado era tratto. Willy Brandt, incontrando Ehrman un giorno, gli disse: “Domanda breve, effetto enorme”.
Allora migliaia di persone si riversarono in strada, incredule e timorose, perché si trovarono di fronte i militari, che non usarono violenza, rimanendo impassibili a sbarrare le vie di transito verso ovest.
Ma la folla era sempre più grande, piena di speranza mista a timore. I soldati non sapevano cosa fare davanti alla massa impressionate di gente che si accalcava al Muro. A quel punto, così come da lui stesso raccontato, Harald Jäger, l’ufficiale che presiedeva uno dei varchi più importanti di Bornholmer Straße, dopo aver sentito il botta e risposta tra Ehrman e Schabowski ordinò: “Su la sbarra”.
E fu la libertà.
Raffaele Tedesco
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