A cento anni dalla marcia su Roma. Un monito per la difesa della nostra libertà
28.10.2022
Quando il 28 di ottobre di cento anni fa le camicie nere fasciste in armi invasero le strade di Roma, mostrarono prima di tutto la crisi di un giovane stato liberale che “andò in pezzi sotto la spinta delle nuove contraddizioni, delle nuove esigenze suscitate dalla guerra”, in parte già preesistenti alla marcia fascista. Un immediato Dopoguerra a cui Nenni diete acutamente il nome di diciannovismo, che vide una rapida evoluzione di una sorta di “sindrome postbellica”, che portò ad una crisi sistemica in un’Italia in cui comunque, come ci ricorda lo storico Sabbatucci, nonostante molti elementi di crisi, accentuatesi con un forte processo inflazionistico, il sistema economico sociale aveva complessivamente retto.
Ma c’era un’altra crisi che aveva provocato scossoni potenti in tutto il Paese; una crisi “morale” legata alle vicende della conferenza di pace dopo la Prima guerra mondiale, che provocò la caduta delle illusioni coltivate da tanti italiani rispetto al nuovo assetto internazionale, in cui l’Italia, come potenza vincitrice voleva avere un posto di riguardo. Quella che venne chiamata la “vittoria mutilata” fu un propellente potente di cui si avvalse il fascismo per andare al potere.
La guerra, inoltre, aveva avuto anche la funzione di “presa di coscienza politica da parte di vaste masse fino ad allora estranee a ogni forma di partecipazione attiva alla vita politica” ed aveva suscitato nuove esigenze economiche e morali, mettendo in moto dei processi che i governanti della classe liberale dell’epoca non riuscirono a comprendere, e che di certo non desideravano. Basti pensare alle grandi lotte dei metallurgici, culminate con l’occupazione delle fabbriche, o quelle dei braccianti della pianura Padana, che si andavano a sommare alle manifestazioni degli ex combattenti delusi da come era stato gestito il post guerra.
In un contesto di forte radicalizzazione dello scontro politico (non dimentichiamo che nel 1917 in Russia ci fu la rivoluzione d’Ottobre), la colpa dello stato liberale era frutto soprattutto della sua incapacità di aprirsi adeguatamente e completamente alle nuove forze sociali e politiche che andavano emergendo già dall’inizio del ‘900, nonostante i successi dell’età giolittiana in termini di inclusione del movimento operaio nella vita democratica italiana.
La spinta delle masse, i cui partiti di rappresentanza vedevano aumentare in maniera consistente i loro consensi, fu vista dalla classe dirigente, dai grandi gruppi economici e dalla piccola borghesia come una minaccia alla stabilità sociale e ai loro interessi. Fu questa commistione di criticità e paure che permise a Mussolini di arrivare a Roma, con una marcia che non possiamo certo chiamare rivoluzione, perché così facendo “significa assolvere le autorità militari e lo stesso Re da ogni accusa di mancata fedeltà allo Statuto e contornare Mussolini di un alone di conquistatore rivoluzionario” – cosa evidentemente falsa. Perché il fascismo, secondo la ricostruzione di Angelo Tasca, si presenta alla borghesia italiana come il solo movimento capace di “assorbire le forze antistatali nell’orbita degli istituti liberali”, senza passare per la collaborazione socialista.
Qualunque sia la natura che si vuol riconoscere alla marcia su Roma (c’è chi come A. Lyttelton parla di “esempio di guerra psicologica”), questo avvenimento, e la sua riuscita, va sicuramente inserito in una processo di violenza e sopraffazione lungo più di un anno (il socialista Giuseppe Di Vagno è stato il primo parlamentare a morire per mano fascista a Mola di Bari il 26 settembre 1921), in un Paese che aveva subito un numero impressionate di umiliazioni della sua libertà, con uno Stato debole connivente in una escalation impressionate da parte fascista di “umiliazioni progressive di una democrazia ischeletrita”.
Prima di arrivare a Roma quel 28 ottobre del 1922, i fascisti avevano già messo a ferro e fuoco tutta l’Italia, senza che le autorità competenti prendessero i necessari provvedimenti per fermarne la violenza che si scagliava soprattutto contro il movimento operaio. I fascisti bruciavano le sedi dei partiti e del sindacato. Distruggevano organi di stampa, occupavano municipi retti da amministrazioni socialiste, minacciando, picchiando, bandendo dalle loro città esponenti dell’antifascismo locale e uccidendo. La violenza, di cui fecero le spese anche i popolari e esponenti liberali, è stata un elemento fondamentale dell’azione fascista ben prima che le camicie nere calassero su Roma; uno strumento di certo efficace anche per dissuadere la classe dirigente oltre che combattere gli antifascisti. Il tutto senza un contrasto adeguato da parte dello Stato.
Cesare Rossi, stretto collaboratore del duce, racconta che lo stesso Mussolini nel commentare i fatti di volenza perpetrati dai suoi, affermò: “Se in Italia ci fosse un governo degno di questo nome oggi stesso avrebbe mandato qui i suoi agenti e carabinieri a sciogliere e occupare le nostre sedi […] soltanto in Italia lo Stato non c’è”. Anzi, molti esponenti importanti anche di casa Savoia, come il duca di Aosta, vedevano di buon occhio il fascismo. Addirittura il 18 ottobre precedente alla marcia, quando i tre comandanti generali fascisti De Bono, De Vecchi e Italo Balbo si recarono a Bordighera per metterne a punto i preparativi, furono invitati a cena dalla regina madre Margherita di Savoia, vedova di Umberto I. Il 3 ottobre lo stesso De Bono pubblicava sul Popolo d’Italia, l’organo di stampa del fascismo, il nuovo regolamento della milizia, dimostrando come nel Paese alle forze dell’ordine ufficiali di affiancasse un organismo parallelo, verso cui chi di dovere non prese alcun provvedimento.
Questo forse da l’idea delle condizioni in cui si svolse la marcia su Roma. Eppure, una resistenza alle camicie nere ci fu. Gli Arditi del popolo bloccarono gli squadristi a Civitavecchia. L’esercito lo fece a Orte. Il presidente del consiglio Facta, alle cinque del mattino del 28 ottobre, decise di proclamare lo stato d’assedio, ma il re rifiutò di firmare il decreto. Il 29, mentre il fascismo dilagava, Vittorio Emanuele III decide di affidare l’incarico di formare il governo a Mussolini, che lo riceve formalmente il 30. Finisce lo Stato liberale e ci si incammina verso la pagina più tragica della nostra storia.
di Raffaele Tedesco
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