4 agosto 1983 Bettino Craxi, primo Presidente del Consiglio socialista

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04.08.2023

Da un sondaggio pubblicato su l’Espresso nel maggio del 1987, emergeva che il 65% degli italiani dava un giudizio positivo di Bettino Craxi come statista e uomo politico affidabile; la maggioranza si esprimeva altresì contro la formula del pentapartito.

Partiamo da qui, da quel 1987, anno della fine dell’esperienza di governo per l’allora leader del PSI, iniziata il 4 agosto del 1983, e di cui quest’anno cade il quarantennio.

Un Esecutivo lungo e stabile rispetto alla tradizione italiana, che non si è fatta mancare neanche i governi “balneari”.

Il primo Governo presieduto da un socialista e da un uomo che ha voluto riallacciare la storia stessa del socialismo, con la nobile – quanto colpevolmente troppo dimenticata – epopea riformista di turatiana memoria. Un politico secondo cui il socialismo senza libertà è solo dittatura.

Craxi si era formato in gioventù con la vicinanza – tramutatasi poi in vero e concreto appoggio – ai dissidenti del mondo sovietico: Pelikan, Adarn Michnik, Jacek Kuron, Lech Walesa, Andreij Sacharov. Senza dimenticare la solidarietà verso il Cile del compianto Allende e ai socialisti spagnoli e portoghesi oppressi da altrettanto atroci dittature fasciste.

Egli diventa segretario del PSI nel 1976. Suo primo obiettivo è rinnovare le matrici culturali del partito e ridargli centralità in un quadro politico che vedeva in atto il compromesso storico tra i due “vasi di ferro” (DC e PCI). Quello di “coccio” – il PSI – annaspava nell’irrilevanza, dopo essere stato partito di “servizio” del primo centro-sinistra rispetto alla DC ed aver fallito l’unificazione socialista con il PSDI.

Se un’importante opera di revisionismo era iniziata già sulle colonne del Mondoperaio diretto da Federico Coen qualche anno prima, con Craxi si dà avvio a un duro e per giunta peculiare “duello a sinistra” con il PCI, che nei fatti aveva avuto inizio nel 1956.

La cultura del PSI ne uscì profondamente rinnovata: Craxi tagliò simbolicamente la barba a Marx con il saggio su Proudhon, pubblicato sull’Espresso nell’agosto del 1978 (Il vangelo socialista), per un socialismo libertario e non deterministico.

Garibaldinamente, si incunea nel rapporto privilegiato tra DC e PCI cristallizzato nel compromesso storico.

Il primo libro scritto subito dopo la sua morte fu: L’Italia che Piange. Appunti sul Socialismo e sull’era Craxi. Un testo – a firma del giornalista Giuseppe Vernaleone – che ripercorre in maniera agile e veloce, non solo la storia del Craxi presidente del Consiglio, ma dà le coordinate del cammino di un personaggio totus politicus, la cui vicenda è inscritta per intero nella storia del socialismo e costruita con una militanza di cui oggi si fa fatica a trovare paragoni.

Un libro, per stessa ammissione dell’Autore, che non ha la presunzione di essere un saggio, ma piuttosto un testo “di appunti sugli eventi che hanno caratterizzato l‘era del garofano”. Un lavoro pregno del convincimento politico del militante, che non si nasconde dietro pelosi sfoggi di imparzialità verso quella pagina di storia che in molti avrebbero preferito fosse saltata, dimenticata o ridotta a semplice corollario di inchieste giudiziarie. Durante il rapimento di Aldo Moro è tra i pochissimi – come giustamente ricorda Vernaleone – a dichiararsi disponibile affinché si aprisse una trattativa con le Br per la salvezza dello statista democristiano.

Collabora con la sinistra lombardiana al “Progetto socialista”, presentato al Congresso di Torino nel 1978. Nel 1979 dà il suo assenso all’installazione dei missili americani sul nostro territorio, in chiave di deterrenza a quelli puntati verso di noi dall’URSS. Una chiara scelta di campo nello scacchiere internazionale.

Nel 1982, il PSI organizza a Rimini la Conferenza programmatica passata alla storia come dei “Meriti e bisogni”. Si parlò di Welfare society in contrapposizione al Welfare State; di riforme del lavoro, di una nuova politica creditizia, di una convenzione costituzionale per migliorare la governabilità. Prove di modernità in un Paese fermo.

Nel 1983, Craxi forma il suo primo governo trovando dinanzi a sé un Paese disastrato. Basta leggere la testimonianza di Gennaro Acquaviva riportata nel libro: “L’Italia è entrata nell’esperienza Craxi – afferma l’ex senatore – con una cultura assistenzialista. L’uomo ridotto a un oggetto in attesa delle provvidenze di uno Stato sempre più burocratico e perciò sempre più ingiusto e sempre più inefficiente”.

L’inflazione galoppava e si ricorreva sistematicamente al placebo della svalutazione competitiva. È nella lotta alla spirale inflattiva, che si innesta uno degli episodi cruciali della sua permanenza a Palazzo Chigi: il referendum del 9 giugno del 1985 sulla scala mobile, voluto dal PCI e dalla maggioranza comunista della CGIL, per affossare il decreto di San Valentino che tagliava di 3 punti percentuali della scala mobile. Vinsero in “no”, contro le demagogie comuniste. Nel 1987, l’inflazione era scesa al 4,5%, nel 1983 era oltre il 14%, riscontrandosi una buona crescita economica.

Sotto il suo governo, si ebbe la riforma del Concordato del 1929. Dove fallirono persino i democristiani, riuscì un garibaldino.

Fu creato il Ministero per l’ambiente e istituita la Commissione nazionale delle parità tra uomo e donna, presieduta dalla senatrice Marinucci.

Pur convinto atlantista, ciò non gli impedì di marcare la sovranità italiana anche nei confronti degli USA. Il caso di Sigonella ne è la prova.

Europeista, favorì l’entrata nell’allora CEE di Spagna e Portogallo. Durante il vertice europeo di Milano del 1985, fu Craxi a forzare la mano per far passare a maggioranza la proposta di una conferenza intergovernativa per riformare i Trattati di Roma. Ne scaturirà l’Atto unico europeo.

Sempre in politica estera, tenderà a rafforzare l’area mediterranea dove l’Italia avrebbe dovuto giocare un ruolo importante, anche nel vicino Mediorientale e questo, forse, gli costò caro per le vicende ben note e che chiusero, probabilmente per mano straniere, la stagione della Prima Repubblica.

Sapeva che senza stabilità politica, non ci poteva essere alcun avanzamento economico-sociale. Per questo l’idea della “Grande riforma”. Il suo decisionismo era “concepito come modello di organizzazione dello Stato che rende possibile il governo della società”, come sottolineò Luciano Pellicani. Ma ciò andava istituzionalizzato in una riforma dell’esecutivo, che non ci fu mai, mentre riuscì a incidere sui regolamenti parlamentari, limitando il voto segreto. Molte grandi riforme furono bloccate, o ritardate, dal “partito dei franchi tiratori”, rappresentato da una parte della dc, sua alleata, ed il Pci, gli stessi che plaudirono all’elezione diretta dei Sindaci, ma dopo più di un decennio.

È vero che il debito pubblico passò dal 70% a circa l’88%, ma persino il suo arcinemico Scalfari, in un articolo apparso su Repubblica, il 1° marzo del 1987, affermò che con il Governo del leader socialista “non solo il livello di spesa pubblica non è aumentato rispetto al prodotto interno, ma anzi è lievemente diminuito”. Inoltre, va sempre ricordato che nel 1981 c’era stato il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, ma nulla era stato fatto per adeguare il sistema alla nuova realtà di finanziamento del debito. Senza contare che nei primi anni ’90 il debito era salito al 120%.

Craxi, con limiti e difetti, tentò una stabilizzazione politica del nostro Paese. Perché, come disse in un’intervista a Vernaleone nel 1999: “La stabilità politica è come l’ossigeno per l’economia”. Pare sia rimasto piuttosto inascoltato.

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