SOTTO L’HIJAB C’ERA MOLTO DI PIU’ E IL REGIME TREMA

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02.01.2023

Dopo due mesi di scontri, 18 mila arresti e più di 400 morti, la protesta in Iran non si ferma, anzi dilaga. Il pugno di ferro del regime non sta bastando per placare la rivolta. E probabilmente non basteranno neanche i diversivi politici. Lo sostengono molti analisti dopo il generale scetticismo che ha accolto l’annuncio dell’abolizione della polizia morale fatto dal procuratore generale Mohammad Jafar Montazeri. Senza conferme da parte del Governo, osservatori e manifestanti invitano alla prudenza. Infatti, più che un segnale di apertura, le dichiarazioni di Montazeri sembrano una studiata operazione di propaganda che, in ogni caso, ha poche speranze di successo.

“Un Iran senza futuro”

La morte di Masha Amini, uccisa per una ciocca fuori dal velo, ha scatenato un’ondata di protesta che va ben oltre la questione femminile o le guardie religiose. Lo ha spiegato diretta e coincisa una donna iraniana ai microfoni della BBC: “Solo perché il governo ha deciso di smantellare la polizia morale non significa che le proteste stiano finendo. Anche se il governo dicesse che l’hijab è una scelta personale non sarebbe sufficiente. La gente sa che l’Iran non ha futuro con questo governo al potere”. Quella contro Teheran è quindi una mobilitazione trasversale. Una ribellione intergenerazionale che filtra nelle università, nei licei e nelle fabbriche e non bada alle divisioni etniche, di classe o soprattutto di sesso.

Un popolo in movimento

Tanto è vero che le donne non sono sole in piazza. Al loro fianco sfilano universitari, liceali, lavoratori che le difendono dagli attacchi della polizia e proclamano scioperi e sit-in. Ne sono un esempio gli operai petroliferi del Kurdistan iraniano o gli insegnanti del sindacato semi-autonomo. Non si tirano indietro neanche i negozianti che, provati dall’inflazione, hanno abbassato le saracinesche e chiuso le loro attività. Nel mentre, continua l’occupazione della fabbrica per la lavorazione della canna da zucchero di Haft Tappeh e la mobilitazione dei pensionati che, vittime di una truffa da parte dei servizi sociali, non sembrano desistere.

Tulīd va mas raf: l’origine della crisi

Perché in Iran il problema non è solo il patriarcato. Non soffrono solo le donne. La violenza di genere si intreccia con l’ingiustizia sociale figlia delle politiche neoliberiste degli anni ’90. All’epoca la Repubblica Islamica, distrutta dalla lunga guerra contro l’Iraq (1980-1988), decise di ristrutturare l’economia affidandosi al motto del “produci e consuma” (tulīd va mas raf). Quindi stimolò la crescita, sostituendo il mito della giustizia sociale, sfruttato nel ’79, con quello dell’individuo e della competizione sfrenata. Il risultato furono delle riforme nettamente a svantaggio dei lavoratori. Il loro potere contrattuale iniziò così un inesorabile declino e dopo 30 anni il bilancio è drammatico: quasi il 90% dei contratti di lavoro è a tempo determinato.

La scintilla

Sono stati anni di liberismo estremo, precarietà e lavoro povero che hanno logorato il tessuto sociale fino al punto di non ritorno. Perciò, la svolta femminista è stata la scintilla che ha fatto esplodere un intricato coacervo di istanze. Ha fatto luce su quelle crepe politiche e sociali che nel Regime scricchiolavano da tempo. Non a caso, già nel 2009 la classe media si era ribellata contro i brogli elettorali dietro la rielezione di Ahmadinejad. Poi, nel 2019, erano stati i ceti meno abbienti a scagliarsi contro il governo, per il taglio ai sussidi del carburante. E ancora, lo scorso maggio, migliaia di giovani senza bandiere politiche, hanno contestato addirittura l’ayatollah Ali Khamenei, la guida suprema, per ulteriori tagli allo stato sociale.

Tutte proteste soffocate nel sangue che hanno sofferto l’oppressione dei movimenti indipendenti e l’assenza di riconoscimenti giuridici per i sindacati autonomi. Ma reprimere non è risolvere. Il popolo iraniano ha continuato a covare quel malcontento che oggi inonda le strade di Teheran, facendo tremare il regime.

Infatti, rifiutare il velo e il controllo maschile sulle donne, significa buttare giù un pilastro cardine della Repubblica Islamica, minandone le fondamenta. Di conseguenza, anche se spontanea e senza leadership, la sommossa iraniana è in potenza rivoluzionaria. Sotto quell’hijab, c’era molto di più: un bisogno di laicità e libertà troppo a lungo frustrato e ora incontenibile.

Giovani d’Iran: addestrati dalle favole

Non è semplice prevedere cosa ne sarà dell’Iran. Certo è che se la piazza riuscirà a strutturare la propria domanda politica, Pasdaran e Ayatollah avranno di che preoccuparsi. Questo, però, vuol dire fare i conti con una feroce repressione che sta costando la vita a tante e tanti giovanissimi.

Sono loro i veri protagonisti di questa complessa e straordinaria pagina di storia persiana. Pronti al sacrificio e alla morte, sembrano addestrati alla rivoluzione. E forse è davvero così. Lo scrive Farian Sabahi nel suo ultimo libro “Noi donne di Teheran”. Ci racconta che in Iran “l’arte della sovversione non è solo prerogativa degli adulti…le mamme insegnano la sovversione ai figli fin da piccoli”. Lo fanno con una favola. Quella del pesciolino nero che abbandona il ruscello dove è nato per vedere cosa è il mare. La sua alleata è una lucertola che lo mette in guardia sui pericoli e gli regala una spina per difendersi dai nemici.

E’ la storia di un pesciolino coraggioso, rivoluzionario, un eroe per tutti i bambini di Teheran, che di fronte al rischio della fine non ha timori: “La morte potrebbe abbattersi su di me con facilità. Ma finché vivrò, non è giusto che mi preoccupi della morte. In fondo anche quand’anche un giorno mi ci trovassi faccia a faccia- e quel giorno verrà- non sarebbe importante. Ciò che importa è la traccia che la mia vita o la mia morte avrà lasciato nella vita degli altri.” E questa traccia che la nuova generazione di Teheran sogna di lasciare è davvero ambiziosa. Soprattutto perché in mare è sola mentre il mondo resta a guardare e forse dovrebbe fare di più. Sola, ma senza paura.

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