ISTAT. La misurazione dell’economia delle piattaforme
02.06.2023
Sono numerose le monografie che ogni anno indagano le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro. Gli studi vertono principalmente su quelle che sono le caratteristiche sociali della trasformazione digitale del lavoro, la diffusione della gig economy e delle piattaforme, tenendo ovviamente conto dell’accelerazione imposta dalla pandemia in ambito tecnologico, la quale ha anche reso più visibili le condizioni difficili di alcuni profili professionali.
A tal fine, pare molto utile un paper redatto dall’Istat dal titolo “La misurazione dell’economia delle piattaforme in Italia”: lavoro di ricerca statistica che partendo dal prepotente emergere di nuovi modelli di business resi possibili dalla rete globale di connessioni offerta dal web che si manifesta specialmente nella modalità di commercio online “si propone di fornire un quadro aggiornato sulle esperienze in corso – in Italia e a livello internazionale – per la misurazione statistica delle attività svolte dalle piattaforme digitali di transazione e del loro impatto economico e sociale”.
I dati della ricerca
Della ricerca, presenteremo solo alcune questioni poste nelle parti più specificatamente dedicate al lavoro, la cui l’analisi si riferisce alle piattaforme digitali di transazione e al volume di attività lavorativa da esse generato.
Secondo alcuni studiosi, il fenomeno del lavoro tramite piattaforma digitale risulterebbe sottostimato nelle statistiche su famiglie e individui, perché gli stessi lavoratori del settore avrebbero una percezione del proprio status occupazionale non come di un vero e proprio lavoro.
Difficile, inoltre, identificare a priori il lavoro tramite piattaforma, poiché questo non è riconducibile a categorie, mansioni o tipologie di impiego codificate nelle indagini campionarie ufficiali o nelle basi di dati amministrativi. Ciò ha portato molto recentemente in Italia alla necessità di introdurre l’obbligo di comunicazione telematica del lavoro mediato da piattaforme digitali (decreto del Ministero del lavoro n. 31 del 23 febbraio 2022).
Secondo l’Ocse, sono infrastrutture digitali quelle che abilitano “un servizio digitale che facilita le interazioni tra due o più insiemi distinti ma interdipendenti di utenti che interagiscono attraverso tale servizio via Internet”.
La classificazione del lavoro nelle piattaforme digitali
Per quanto riguarda la classificazione del lavoro nelle piattaforme digitali, Eurofound (2018), esaminando la tipologia e le condizioni di lavoro, ha identificato cinque caratteristiche chiave del lavoro nelle piattaforme: il livello di competenze richiesto per eseguire il compito (basso, medio o alto); il modo in cui il servizio viene fornito (in loco o online); impegno richiesto dai diversi compiti (micro-compiti oppure progetti/lavori più ampi); il processo di selezione (chi sceglie: la piattaforma, il cliente o il lavoratore); la modalità di incrocio o abbinamento tra domanda e offerta.
L’incrocio di queste caratteristiche ha portato a individuare dieci tipi di lavoro tramite piattaforma con tre tipologie di base: lavoro di routine svolto sul posto e definito dalla piattaforma; lavoro moderatamente qualificato scelto su iniziativa dal lavoratore e svolto sul posto; lavoro online specializzato su commissione.
È dal 2015, che alcuni studi hanno provato a stimare il numero di lavoratori del settore a livello nazionale o internazionale.
Il reddito percepito
Negli USA si sono effettuate più rilevazioni, che mostrano stime variabili rispetto alla forza lavoro impiegata nelle piattaforme, tenendo conto anche delle diversità metodologiche delle indagini. Per esempio, una ricerca di Collins ha studiato il lavoro indipendente mediato dalle cinquanta maggiori piattaforme di lavoro online negli Stati Uniti tra il 2010 e il 2016, stimando che circa l’1% della forza lavoro statunitense denunciava un reddito da lavoro percepito da una o più piattaforme digitali. Secondo il Pew Research Center, invece, negli Stati Uniti l’8% degli adulti in età lavorativa ha guadagnato denaro nell’ultimo anno collaborando con portali web.
In Europa il progetto statistico più importante condotto è l’indagine COLLEEM, che nel 2018, e facendo riferimento a sedici Paesi UE, ha stabilito che coloro i quali “hanno utilizzato almeno una volta piattaforme online per fornire qualche tipo di prestazione lavorativa rappresentavano circa l’11% della popolazione adulta”.
Anche l’European Trade Union Institute (ETUI) – tra il 2018 e il 2019 – ha condotto un’indagine sul lavoro similare che ha coinvolto la popolazione di Bulgaria, Ungheria, Lettonia, Polonia e Slovacchia: 4.731 adulti in età lavorativa (18-64 anni). In questi Paesi il lavoro tramite piattaforma varia dall’1,9% in Polonia al 7,8% in Ungheria.
Digital gig worker
Per quanto riguarda il nostro Paese, la prima indagine sul tema dei digital gig worker è del 2018, condotta dalla Fondazione Debenedetti, in collaborazione con l’Inps.
Nel complesso i digital gig worker sono risultati essere l’1,6% della popolazione italiana, mentre dal Rapporto annuale dell’Inps sono emerse alcune evidenze preoccupanti. Non esiste, infatti, una gestione previdenziale dedicata ai lavoratori dell’economia delle piattaforme o, più in generale, della digital gig economy. Manca anche una base dati amministrativa che consentirebbe di monitorare in maniera costante e sistematica questo gruppo di lavoratori. Impossibile risulta anche “ricostruire il processo di pagamento dei compensi ai lavoratori digitali [perché] molte transazioni coinvolgono soggetti residenti fuori dal territorio nazionale”.
Secondo la Banca d’Italia, che ha svolto un’analisi sui bilanci del 2017 di 26 piattaforme di lavoro che si occupano di consegna di cibo a domicilio e che hanno sede fiscale in Italia, “solo 5 delle 17 piattaforme […] prese in esame hanno effettuato assunzioni di addetti alle consegne, per un totale di 3.876 contratti di lavoro”.
Secondo statistiche Inapp su un campione di 45 mila individui tra i 18 e i 74 anni intervistati telefonicamente, “nel 2021 circa 570 mila individui (l’1,3% della popolazione tra i 18 e i 74 anni residente in Italia) ha dichiarato di aver prestato attività lavorative per conto di piattaforme digitali. Circa tre quarti di loro si percepiscono come occupati, mentre 157 mila si definiscono inattivi o disoccupati: si tratta soprattutto di studenti”.
L’Istat stima che il numero di lavoratori tramite piattaforma per il 2021 è pari allo 0,2% degli occupati (circa 50 mila individui), ovvero lo 0,1% dei lavoratori a tempo indeterminato, lo 0,2 di quelli a tempo determinato, lo 0,8 degli autonomi senza dipendenti, con percentuali che arrivano fino all’1,8 tra i collaboratori.
La ricerca da molte altre utili informazioni, tutte necessarie a descrivere e raccontare un mondo del lavoro che necessita di grande attenzione e tutele.
Un ultimo dato Istat che forse vale la pensa di segnalare. Esso riguarda l’indicatore sulla paura di perdere il lavoro: per i lavoratori delle piattaforme risulta un dato quasi doppio rispetto al totale degli occupati (13,6 contro il 7,5%). Ed anche questo fa riflettere, per agire.
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