Il mercato del lavoro non sia selvaggio con le donne. Non costringiamole a dover scegliere tra lavoro e figli

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09.06.2023

Diventare o no madri oggi è una decisione complicata. Le donne sanno bene che fare un/a figlio/a può comportare il rischio di perdere il lavoro: perché nel mondo del lavoro si valuta ancora la quantità più che la qualità del lavoro svolto.

Poco (e a pochi…) importa se l’impossibilità di conciliare vita e lavoro si traduce in dimissioni “volontarie” entro il primo anno di vita del bambino e nella perdita di quella autonomia finanziaria che sempre protegge le donne, anche in caso di violenza domestica. E dipende dal carico di cura che un figlio comporta.

Le donne vorrebbero fare più figl*, almeno 2, mentre la media di nascite in Italia è 1,25 figl* per donna: ma non se li possono permettere, sicure come sono di rimetterci in carriera e remunerazione. 

Le donne non vogliono più essere madri?

Eppure, mai come oggi si sentono stereotipi infondati: le donne “non vogliono più” essere madri, “preferiscono la bella vita al sacrificio”… tutte narrazioni che tendono a colpevolizzare le donne che rifiutano il ruolo tradizione di angelo del focolare, dedito alla cura, pronto ad accogliere e cucinare. Nel terzo millennio è ancora difficile accettare che le donne vogliano realizzarsi anche nella vita pubblica.

Dovendo però confrontarsi con le richieste (perverse) di un mercato del lavoro selvaggio per conquistarsi un lavoro “sicuro” e a tempo pieno, le donne sono costrette a rinviare la maternità proprio nella fase della vita in cui si è più fertili. Spesso il rinvio diventa una rinuncia.

Ma perché lavorare anche se si vive in un contesto in cui il tuo compagno “ti garantisce sicurezza”? Intanto perché il compagno può scegliersi un’altra e andare altrove dalla sera alla mattina. O perché la stessa donna può cambiare idea. E poi perché una vita senza lavoro ma anche con lavori discontinui o irregolari significa rischio di povertà in età avanzata

Le scelte non sono libere

Le donne vogliono poter scegliere, ma le loro scelte restano condizionate dal contesto.

Qui è doveroso aprire una parentesi: chi siamo noi, per giudicare le scelte di un’altra persona? Perché indicare come una persona “sbagliata” una donna che “sceglie” di puntare su sé stessa anziché crescere -magari da sola – uno o più figl*? Perché di scelta si tratta: le donne sono costrette a scegliere tra maternità e lavoro, nel nostro Paese di fatto inconciliabili. Le risorse per nidi e case di residenza assistita non sono sufficienti: chi chiamiamo a supplire? Chi paga pegno? La donna, che diamine! 

Con il PNRR avremo i soldi per costruire gli edifici ma si dichiara da tempo che i comuni non hanno le risorse per assumere il personale necessario per farli funzionare. La conseguenza sarà che altre donne rimanderanno la maternità o non avranno bambin* o andranno a farli all’estero, dove oltre ad essere retribuite meglio troveranno anche servizi efficienti.

Non sono dimissioni volontarie

Ogni scelta nella vita di una donna ha un costo, e nessun altro come quella stessa donna sa quanto costi scegliere tra due opzioni spesso incompatibili. Quando bisogna mollare qualcosa, siccome non si può mollare la prole si molla il lavoro! Magari con dimissioni “volontarie” rese entro il primo anno della prole, in numero che si impenna all’atto de* second* figli*. Ultimamente sta prendendo forza un nuovo sport: si punta il dito su chi non fa figl* esaltando il ruolo di “riproduttrice” per un Paese che rischia il collasso generazionale. Per inciso, questa propaganda di riprendere a fare figl* “altrimenti non ci saranno risorse per pagare le pensioni agli anziani” rischia di essere controproducente.

In Italia i problemi di cura ricadono in prevalenza sulle spalle delle mamme. Se esiste un contesto di sostegno, in qualche modo le mamme riescono a lavorare. Più o meno. Magari facendo ricorso al part time. O consumando tutti i congedi parentali facoltativi che dal 1971 sono ancora indennizzati al 30% dello stipendio – quindi subendo una notevole rimessa economica che ci fa tornare d’accapo, ad un lavoro femminile più “povero” a causa degli oneri di cura. 

Se invece non esiste un contesto favorevole, ad es. nel caso in cui si viva lontano dalla famiglia di origine, o in una città/regione in cui non si sia investito nel welfare, allora la maternità diventa davvero un lusso.

Denatalità: Riflessioni di contorno

Il quadro sulla denatalità non è completo se non si fanno altre riflessioni di contorno. Per la prima volta le statistiche dicono che il 17,4% delle donne fertili (15-49 anni) senza figli si dichiarachildfree”: non hanno figli e non ne vogliono, opzione di vita che non è più condannata socialmente. 

Tuttavia, emerge anche che le donne che vogliono figli ne vorrebbero avere almeno 2, ovvero più di quelli che effettivamente riescono a consentirsi: la media di nascite in Italia è 1,25 figl* per donna. 

Altro elemento da tenere inconsiderazione è il numero della popolazione femminile. Le donne in età feconda nel 2022 erano un milione in meno rispetto al 2008; secondo l’ISTAT il calo deriva “per due terzi alla protratta denatalità del periodo precedente, che ha ridotto la popolazione femminile, per un terzo dipende dalla diminuzione della fecondità”. 

N.b.: anche le immigrate in Italia fanno meno figl* di prima e li fanno sempre più tardi! 

Consideriamo un altro elemento: la laurea protegge maggiormente i giovani, ed in particolare le donne, dalla disoccupazione. Eppure, l’Italia ha buona parte de* giovan* con maggiore istruzione che emigra all’estero in cerca di lavoro. Vanno in Paesi Europei che hanno investito da tempo sulla natalità, trovando servizi per l’infanzia e agevolazioni per le famiglie. Lasciano qui le famiglie di origine, genitori che non potranno contare sul loro sostegno nell’età più avanzata e avranno ancor più bisogno di servizi.

Fa tristezza pensare che Adriano Olivetti già nel 1941 fece costruire il primo asilo aziendale per far lavorare più tranquille le madri lavoratrici, mentre in tanti colossi industriali moderni prevale l’attitudine a considerare chi lavora un “peso” quando ha necessità familiari.

Il sistema pubblico e la politica non hanno saputo proteggere al meglio il valore della maternità e del lavoro, offrendo qualche incentivo invece che servizi e infrastrutture; troppo spesso hanno prevalso interessi privati o aziendali rispetto a offerte di valore sociale, perfino la cultura rimane quella patriarcale carica di stereotipi, che continua a considerare le donne obbligate al servizio e continua a non ascoltarne le richieste. 

Piani di azione per la maternità

È davvero urgente invertire la rotta agendo su più piani. 

  • Il lavoro resta strumento primario di emancipazione e di autonomia, chiunque ha diritto ad un lavoro dignitoso, sicuro e ben retribuito. Lo diceva già la Costituzione, deve essere impegno prioritario del Paese.
  • È necessario che la maternità sia non solo desiderabile ma anche realizzabile senza penalizzazioni.
  • Per invertire un trend negativo da anni ci vogliono anni di investimenti costanti in senso contrario, e ciò va fatto indipendentemente dalle alternanze della politica.
  • In una società attenta devono essere assicurati servizi e infrastrutture sociali, accessibili sul territorio ed economicamente convenienti per tutte e tutti.
  • Vanno smontati gli stereotipi culturali che impediscono una corretta narrazione al femminile del mondo.
  • Ogni persona deve avere il diritto di poter scegliere senza condizionamenti, secondo le proprie inclinazioni, talenti, strumenti. 

Questi sono princìpi ed azioni che hanno valore per chiunque, ma per le donne di più: perché le donne valgono, ma restano svantaggiate dall’essere “potenzialmente madri”!

Questo articolo è stato scritto usando un linguaggio gender sensitive. Anche questo vuol dire porre attenzione alle differenze! 

Sonia Ostrica – Coordinatrice Pari Opportunità UIL

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