L’esperienza della modernità
11.03.2022
Nell’Ottocento, si era al tempo stesso entusiasti della modernità e suoi critici implacabili: sia/che. Nel Novecento, invece, gli intellettuali e gli artisti sono stati o ciecamente entusiasti della modernità, o unilateralmente suoi nemici: o/o. È il tema di un libro importante, L’esperienza della modernità, di Marshall Berman (Il Mulino, 1982), che con il passare del tempo non invecchia e si dimostra sempre molto utile, perché i due atteggiamenti di acritica accettazione e di acritico rifiuto sono tuttora in campo, a scapito di un approccio critico che sarebbe quanto mai auspicabile.
Berman individua tre fasi della modernità: 1500-1700; 1789-Ottocento; XX secolo. Nelle prime due, prevale la voglia di cambiamento, mentre nella terza il sentimento determinante è la paura dei cambiamenti e la reazione ad essi, a sinistra come a destra: la “nuova sinistra” si appiattisce su una condanna totale della modernità, come già aveva fatto la destra. Vedi Marcuse, soprattutto quello … a una dimensione.
Il dibattito anni ’60 sul modernismo, infatti, evidenzia, secondo Berman, tre tendenze: un atteggiamento affermativo (Cage, Sontag, Pop Art etc), però poco critico e alquanto facilone; un atteggiamento negativo: modernismo come rivolta totale, che però così tralascia il momento costruttivo, che invece è presente, per esempio in DH Lawrence (erotismo, bellezza, tenerezza, non solo rabbia e disperazione), Joyce (Molly Bloom: sì dissi sì voglio Sì), Coltrane (A Love Supreme), Dostoevskij (Alyoscia che all’apice Nei grigi anni ’70, andò anche peggio. Ci mancarono persino i modernisti affermativi anni ’60. In cambio, strutturalisti che rimuovono il problema della modernità e post-modernisti ignoranti della storia. Non più sintesi generali, ma una settorializzazione, soprattutto operata dai sociologi: non più un mondo, ma monadi.
E allora, l’invito di Berman è: torniamo ai grandi modernisti dell’Ottocento, torniamo alla contraddizione. Torniamo a Marx, che teneva insieme l’elogio della modernizzazione borghese e la lotta di classe anti-borghese. Torniamo a Goethe, al suo Faust, dove creazione e distruzione sono entrambe presenti: non si sarà in grado di creare nulla se non si è disposti ad accettare che tutto ciò che è stato creato fin lì debba essere distrutto. Uno dei paradossi con cui fare i conti, e Mefistofele è signore dei paradossi. Un gioco dialettico, e Mefistofele ne è maestro. Torniamo a Gogol, alla sua Prospettiva Nevskij. Due personaggi incrociano sulla Prospettiva Nevskij due donne, ciascuno segue quella che lo ha colpito. Il tenente stupidone finisce per farsi maltrattare dal marito della sua; il pittore scopre che la sua è una prostituta, vorrebbe redimerla, viene sbeffeggiato, diventa oppiomane e si uccide. I due linguaggi di Gogol: surreale quando parla della Nevskij; realistico quando parla delle strade laterali, dove si svolgono le due storie del tenente e del pittore. Anche Gogol non è monodimensionale rispetto alla Nevskij che simboleggia la modernità: lo affascina, ma lui poi invita a non fidarsene.
Il libro contiene ancora molto altro, ma quanto sin qui richiamato è sufficiente a chiarire l’impostazione che Marshall Berman suggerisce: basta post-moderno. La modernità continua e ci si deve fare i conti considerandone tutti gli aspetti, progressi e regressi, senza paura della contraddizione.
Di Roberto Campo
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