Il “Job hopping” un fenomeno anche italiano?
11.11.2022
L’attitudine a cambiare spesso occupazione nella nostra cultura è percepita come indicatore di poca affidabilità, di precariato o di scarso spirito di adattamento del lavoratore.
Non sono sicuramente queste le caratteristiche del Job hopping, ovvero la tendenza a saltare letteralmente da un lavoro all’altro, per propria scelta, per ambizione o per ricerca di nuovi stimoli.
Parlare di queste dinamiche nel paese dell’ambìto “posto fisso zaloniano” può sembrare tendenzialmente provocatorio, ma indubbiamente attuale considerando l’approccio lavorativo delle nuove generazioni e delle nuove professioni.
Sono, infatti, i giovani, per non dire i giovanissimi ad avere questo tipo di attitudine da quanto dimostrato da una recente ricerca di Deloitte.
In particolare, il 43% dei Millenials (nati tra il 1980 e il 1995) manifesta propensione all’idea di cambiare lavoro con una frequenza biennale, e lo stesso dato sale al 61% ponendo la domanda ai più giovani della Generazione Z (nati tra il 1995 e il 2010).
Quale fascino nasconde questo meccanismo?
Indubbiamente, il “saltellare da un’azienda all’altra”, porta con se alcune peculiarità che non possono che appartenere ai lavoratori attivi della recente epoca storica, dalla crisi economica del 2008 alla crisi pandemica.
In fondo in Italia era solo il 2012 quando Mario Monti, all’epoca Presidente del Consiglio, parlò della monotonia del posto fisso e dell’invito ai giovani ad abituarsi a cambiare spesso occupazione. Quella che sembrava una condanna per qualcuno oggi può diventare un’opportunità o quanto meno un fenomeno da iniziare a conoscere più da vicino.
Si, perché in fondo questa tendenza quando trova terreno fertile, permette al lavoratore di avere una carriera più veloce ed una retribuzione più alta dovuta anche alla forza contrattuale, alla professionalità e alla costante ricerca di nuovi coinvolgimenti e stimoli.
A questo va aggiunto, che cambiare spesso posto di lavoro può portare ad aumentare le proprie competenze, ad acquisire o rafforzare le skills necessarie e/o trasversali, e in particolar modo ad ampliare la sfera dei contatti e delle proprie collaborazioni.
Per ora il fenomeno del job hopping stenta ad essere una realtà concreta in Italia o quanto meno paragonabile a ciò che succede oltreoceano.
È chiaro che la possibilità di essere meno stabili, ma più felici, passa comunque da una concretezza di base che è quella di un mercato del lavoro concreto, dinamico e audace. L’Italia oggi con un tasso di disoccupazione totale al 7,9%, che arriva al 23,7% come tasso di disoccupazione giovanile fatica ad offrire la possibilità di una scelta, e molto spesso è carente anche solo per un’offerta di lavoro dignitosa.
È indubbio, quindi, che un mercato di job hoppers può funzionare a fronte di economie stabili e di un tasso di disoccupazione basso.
La realtà che oggi in Italia sta prendendo piede è l’inizio di una ridefinizione del paradigma delle priorità lavorative, l’aumento della cultura del lavoro sano e sicuro, della consapevolezza dell’importanza della conciliazione vita-lavoro, che a fronte dell’uscita dalla crisi pandemica e della caduta delle certezze di un posto fisso, prevale come indirizzo di prospettiva per il futuro.
Chi ha un’alta professionalità può ambire sicuramente al meccanismo del job hopping italiano, dove il mercato del lavoro per i giovani altamente specializzati e con esperienza è sicuramente terreno fertile su cui poter “saltellare” da un’esperienza all’altra. Tuttavia, per la maggior parte dei giovani è più probabile rimanere intrappolati nel fango della scarsa possibilità di valutare alternative anche solo ad una prima e congrua offerta di lavoro dignitoso.
Valerio Camplone
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