Come Dante tre volte perse Beatrice
30.03.2024
In occasione del Dantedì 2024
questi si tolse a me e diessi altru
“Per quella moro c’ ha nome Beatrice” (Rime, LXVIII).
“Quella che imparadisa la mia mente” (Par. XXX).
Questi versi collegano, nel nome di Beatrice, la gioventù del poeta (le prime liriche) alla sua maturità (la Divina Commedia) e sottolineano la centralità e la persistenza di questo amore. Nelle liriche giovanili Dante scriveva d’amore secondo i dettami della poesia cortese del bolognese Guido Guinizelli, ripresa e rinnovata a Firenze dall’ amico Guido Cavalcanti, poesia che Dante ribattezzerà “Dolce stil novo”.
La giovane fiorentina domina anche ne “La Vita Nova”, l’operetta che narra la storia del loro amore e ne evidenzia i momenti salienti: il primo incontro, nell’età della fanciullezza, quelli successivi, per le vie di Firenze o in occasioni particolari, “socialmente consentite”, fino alla morte prematura di Beatrice.
Sia Dante che Beatrice erano già “promessi” in matrimonio fin da bambini: Dante a Gemma Donati e Beatrice a Simone de’ Bardi; questa situazione però non impedisce la nascita di un sentimento fortissimo: “Dico che Amore signoreggiò la mia anima” (…). Questo Amore ineffabile e misterioso, potente e irresistibile si manifesta con segni sconvolgenti ad ogni incontro, soprattutto quando era imprevisto: malore fisico, tremito, annebbiamento della vista fino alla perdita dei sensi.
Un sogno notturno (che assomiglia a un incubo, dove Amore personificato, tenendo tra le braccia la donna, le dà in pasto il cuore sanguinante del poeta) fornisce lo spunto per un sonetto (A ciascun’alma presa e gentil core) che viene inviato ai poeti fiorentini della cerchia dei “Fedeli d’amore”, guidata da Guido Cavalcanti. Alcuni di questi rispondono e tra questi Guido che diverrà l’amico più caro di Dante.
La storia di questo amore si svolge nell’arco di alcuni anni, fino alla scomparsa di Beatrice, tra emozioni fortissime, stati di beatitudine, estasi e tormenti collegati all’ incontro con la donna e al saluto che ella si degna di dare al Poeta e in questo saluto è la finalità dell’amore, in questo il piacere e la beatitudine. La sua apparizione “dà per gli occhi una dolcezza al core che intender non la può chi non la prova” e probabilmente Dante avrà cercato, aguzzando il suo ingegno, tutte le occasioni possibili per vedere la sua amata.
Certo Beatrice fu a conoscenza di questo amore e della dedizione del poeta: in tutta Firenze circolavano e si recitavano le poesie di Dante che, ben presto, venne considerato con Guido Cavalcanti la voce lirica più “alta” della città.
Egli, inoltre, era amico del fratello di lei, Manetto, fin dalla fanciullezza, e alla luce di questo rapporto è facile capire che Bice (come veniva chiamata) fosse perfettamente a conoscenza del sentimento che Dante provava per lei e ne fosse assai contenta e lusingata (quale donna non lo sarebbe stata?).
Quando Dante, prudentemente, per evitare pettegolezzi e scandali, finge di essere innamorato di un’altra donna (la donna dello schermo), Beatrice, se ne dispiace moltissimo e, per dispetto, gli nega il saluto (“mi negò lo suo dolcissimo salutare”), cosa che gettò il Poeta nella più nera disperazione. Per giunta, nel corso di una festa di matrimonio, insieme con le amiche, si prende gioco di Dante deridendolo con parolette e risatine che ebbero su di lui effetti dolorosi e sconvolgenti.
La Vita Nova, pur essendo dedicata al “primo amico” Guido Cavalcanti, sancisce però la profonda differenza e, ad un certo punto, la “rottura” tra i due.
Per Guido l’amore è la risposta ad un impulso naturale che nasce dalla visione del corpo amato, dalla sua bellezza e dal piacere che ne deriva e che dunque, si oppone alla ortodossia morale ai “comandamenti” della religione. Esso è un sentimento terribile, travolgente e potenzialmente mortale. Il percorso di Dante è diverso in quanto passa o alterna fasi di passione sconvolgente e tormentosa a momenti di sublimazione ed elevazione; dal desiderio fisico all’ appagamento contemplativo e spirituale. Ne “La vita nova” la lode della donna e la creazione poetica che ne scaturisce si sostituiscono alle finalità carnali dell’amore e sembrano procurare un piacere altrettanto appagante.
Dante, però, non era un santo dedito all’ascesi e alla contemplazione e amò anche altre donne (sappiamo tutto, o quasi, da lui stesso: la “Pargoletta”, la “Montanina” per citarne solo due tra quelle che compaiono in alcune liriche); viene anche da pensare alle tante volte in cui egli, leggendo personalmente i suoi versi, (per es. le parole d’amore e passione di Francesca da Rimini) presso le corti di Verona, Treviso, Ravenna ecc. , avrà conquistato e sedotto le dame che lo stavano (volentieri) ad ascoltare. Quante saranno cadute si suoi piedi? D’altro canto egli ammette che la lussuria è il suo peccato e i suoi amori sono vissuti in questa “oscillazione” tra la tentazione carnale e il desiderio di sublimazione.
Sarà la stessa Beatrice nel momento dell’incontro sulla cima del colle del paradiso terrestre a rimproverarlo, rinfacciandogli i suoi tradimenti, quando, dopo la sua morte, essendosi dimenticato di lei, aveva cercato consolazione in altri amori: “questi si tolse a me e diessi altrui “ e “fui a lui men cara e men gradita”. Dante è in grande imbarazzo per i suoi “trascorsi” ma nel momento culminante dell’incontro con Beatrice, l’emozione fortissima e il turbamento che prova gli faranno venire alle labbra l’espressione virgiliana:
“riconosco i segni dell’antica fiamma” (adgnosco veteris vestigia flammae).
Beatrice, dunque, è sempre presente nella poesia e nella vita di Dante: il poeta fa di questa donna che in vita aveva perduto due volte – la prima volta perché aveva sposato un altro, la seconda perché era morta a 24 anni – lo “spiritus movens” del suo percorso di salvezza e il punto d’arrivo del suo viaggio nell’aldilà (secondo Borges, Dante scrive la Commedia per “poter rivedere quel sorriso e sentire quella voce” e tutti gli altri spiriti incontrati sono solo gradini che portano a lei).
In realtà il poeta la perderà una terza volta: quando, guidato da lei (la cui bellezza aumenta ad ogni nuovo cielo che raggiungono) salgono fino all’ empireo, in questo cielo dove ciò che è lontano non è meno nitido di ciò che è vicino, come nei quadri fiamminghi, Dante la vede, in alto, in uno dei giri della Rosa celeste “come un uomo che alzi lo sguardo dall’abisso del mare alla regione del tuono e da tale distanza la venera e implora. Le rende grazie per la sua benefica pietà e le raccomanda la propria anima.” (Borges)
“O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute (…)”
“Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò all’ eterna fontana”.
Storica dell’Arte Licia Lisei
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