Il nascente movimento operaio italiano e lo sport

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07.02.2022

Tra il nascente movimento operaio italiano, alla fine del XIX secolo, e lo sport non fu amore a prima vista. Anzi, da come ci racconta lo storico Stefano Pivato[1] vi era una diffidenza che si protrae fino al primo dopoguerra. E ci volle tempo affinché il Partito socialista rimuovesse i propri pregiudizi verso la pratica sportiva, riconoscendogli quindi capacità aggregative ed educative. Lo sport era visto come un “vizio borghese” il “peccato delle persone che non hanno nulla da fare”.

Il nostro è stato un socialismo che agli albori era caratterizzato da una forte “essenza agricola”. Un mondo, quello dei campi, che vive di miti e simboli; di valori radicati, difficili da cambiare, in un’Italia umbertina dove iniziava ad affermarsi il fenomeno sportivo, senza che il lemma “sport” fosse entrato nel vocabolario nazionale. Lo stesso Turati, in principio, definì lo sport come “stupido ed aristocratico”, anche perché a quel tempo la pratica dell’attività sportiva aveva un’impronta marcatamente nazionalista e militarista, in quanto “l’educazione fisica posta al servizio della causa della indipendenza nazionale aveva costituito il retroterra ideologico della ginnastica”.

Insieme al movimento nazionalista, anche quello cattolico, che andava strutturandosi nella nascente società industriale italiana, intuì la funzione aggregante dello sport nei confronti delle masse popolari, pur se le gerarchie ecclesiastiche rimasero fredde, forse per le “origini anglosassoni e quindi «protestantiche» di quegli sport come calcio e ciclismo che erano stati importati in Italia già alla fine dell’Ottocento”.

Neanche la nascita della Federazione giovanile socialista, nel 1903, smosse questa diffidenza del Psi verso lo sport. Anzi, nel congresso nazionale del 1910, essa ribadì che “lo sport […] non aiuta l’educazione fisica del corpo umano, ma anzi lo debilita, lo rovina e degenera la specie” e “serve solo a speculazioni industriali”.

Nel movimento operaio la discussione sulla pratica dello sport diventa, usando parole dell’epoca, di «attualità dolorosa». E il dibattito si intensificò proprio nella primavera del 1909, sulla scia del successo di alcune gare sportive di ciclismo: Giro di Lombardia nel 1905, Milano-Sanremo nel 1907 e soprattutto il Giro d’Italia del 1909.

Contro il Giro tuonano anche i giovani repubblicani, secondo i quali “il Governo è furbo – si scrive sulla Giovane Italia – […] ha compreso che per fiaccare il popolo non giovano le leggi reazionarie […] ma il divertimento”.

Fu probabilmente la passione dell’Italia per la bicicletta, una sorta di «quasi religione laica» a cambiare, almeno in parte, la narrazione sullo sport nella sinistra. Anzi, l’utilizzo del velocipede da parte del proletariato se prima fu avversato, in seguito divenne un ottimo mezzo per la propaganda. Nacquero, infatti, nel 1912, i Ciclisti Rossi con l’intento di “dare modo ai nostri Comitati di poter disporre di mezzi sicuri e celeri per comunicazione e corrispondenze”. La bici non è più un «lusso borghese e capitalistico».

Al suo interno, ovviamente, il movimento operaio non era monolitico nel suo atteggiamento verso la pratica sportiva e il ciclismo in particolare. Fu Ivanoe Bonomi che si scagliò con un articolo contro un manifesto a firma di giovani Mazziniani, Socialisti e Anarchici uscito appena concluso il primo Giro d’Italia, nel quale lo sport veniva da loro considerato “una invenzione del capitalismo”.

Il riformismo e il massimalismo trovano nello sport un altro terreno di scontro, se pare che Benito Mussolini gettasse chiodi al passaggio dei ciclisti e Angelica Balabanoff riaffermava la coerenza dell’impostazione antisportiva del socialismo ribadita al congresso di Firenze.

Sarà Filippo Turati, in seguito, a scrivere che “per la nostra concezione, assai più importante […] è l’impiego delle seconde otto ore […] di quelle che stanno tra il lavoro salariato e il sonno organicamente riparatore”. E in questo spazio di tempo lo sport diventerà sempre più importante e presente, tutto da organizzare. Poi, arrivò il fascismo che usò lo sport come mezzo di inquadramento delle masse nella sua perversa ideologia.

di

Raffaele Tedesco

 

[1] S. Pivato, La bicicletta e il Sol dell’Avvenire, Ponte alle Grazie, Firenze, 1992 e Storia sociale della bicicletta, Mulino, Bologna, 2021.

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